Il dottor Ellin guarda gli scaffali semivuoti. Afferra un barattolo di
fagioli e lo rigira tra le mani, assorto.
“Dobbiamo resistere, Stanley.” Si volta verso di me. “Siamo come topi in
cattività, ma dobbiamo resistere.”
Annuisco senza convinzione. Siamo nel bunker sotterraneo da sei mesi e
abbiamo dato fondo a quasi tutte le scorte alimentari. Adesso stiamo
razionando le ultime dodici scatolette.
È buffo, in fondo. Non c’è stato bisogno di scomodare gli alieni o le
profezie maya, per arrivare alla fine del mondo. È bastata la stupidità
umana.
Dodici scatolette. Cristo Santo.
D’improvviso, l’idea di salire in superficie e di respirare la Merda Rossa
mi sembra quasi allettante.
Merda Rossa. Un nome appropriato, per il gas che ha sterminato l’umanità. Ha
fatto la sua comparsa nei cieli del Nord America il 19 settembre scorso. È
rossastro, inodore e, come abbiamo avuto modo di scoprire, assolutamente
letale per ogni forma di vita. Lo respiri, e inizi a sputare sangue, i
polmoni sigillati. La morte arriva dopo pochi secondi. Non esiste cura, non
esiste antidoto.
I blog complottisti si sono scatenati, almeno finché ha funzionato Internet.
Alcuni hanno scritto di un’arma batteriologica creata dai terroristi
islamici, altri di un esperimento dei servizi segreti americani uscito per
errore dai laboratori. Teorie interessanti, peccato che la gente fosse
troppo impegnata a scappare per dar loro retta.
I venti hanno spinto il gas verso est: Africa, Europa, Asia. Di fronte al
disastro, i più furbi hanno cercato rifugio nel cuore della terra. Io e il
dottor Ellin abbiamo occupato il bunker 12, un’installazione costruita in
piena guerra fredda.
La Merda Rossa non può arrivare quaggiù. Abbiamo un ottimo impianto di
depurazione dell’aria, oltre che acqua e luce in abbondanza. E dodici
schifosissime scatolette.
Oh sì, siamo stati proprio furbi.
Mi butto sulla branda, squassato in due dai crampi che mi azzannano le
budella. È la fame, penso, è la fame che mi annebbia il cervello e m’induce
a questi brutti pensieri.
Ellin è seduto davanti alla postazione radio, le sopracciglia corrucciate
nello sforzo di captare qualche segnale. In sei mesi non ne abbiamo ricevuto
neppure uno, ma lui non demorde.
“Qualcuno mi sente?” ripete con una forza di volontà incrollabile, “c’è
qualcuno in linea? Qui bunker 12, c’è qualcuno in linea?”
Lo sguardo mi cade sulle sue braccia carnose, sulle sue guance ancora
paffute nonostante la dieta forzata. Non posso fare a meno di leccarmi le
labbra.
Ellin ha ragione. Devo resistere.
Mi alzo e vado nel cucinino. Sul ripiano di formica è posato un coltello. Lo
nascondo dietro la gamba destra, mentre mi avvicino senza fare rumore a
Ellin. Adocchio il suo collo grassoccio. È là che colpirò.
Spero solo che non mi porti rancore.
Del resto, una persona acculturata come lui dovrebbe saperlo. Tra i topi in
cattività non sono rari i casi di cannibalismo.