Oreste si godeva gli ultimi raggi di sole autunnali. Si scaldava le ossa vicino al camino, e con gli occhi ambrati socchiusi osservava la sua padrona muoversi indaffarata per la cucina. Sebbene la sua espressione fosse quella della sfinge, dentro di sé pensava, ozioso come solo i gatti sanno essere, a quanto la amasse. Era vecchio, e di tanto in tanto sentiva le ossa dolergli. I muscoli rigidi non rispondevano più con la prontezza di una volta nel cacciare le ombre e le figure indistinte che solo i felini riescono a inseguire, al di là della percezione. E proprio le ombre, che si addensavano in casa da ormai qualche giorno, lo turbavano più del solito. Ne conosceva il significato, e da predatore sapeva riconoscere quando la Morte era nei paraggi. Non se ne curava più di tanto, aveva vissuto bene, e sarebbe morto tra le stesse braccia che lo avevano nutrito, stretto e amato fin dal giorno in cui aveva aperto gli occhi.
Mosse le orecchie, deliziato dalla voce
fragile della sua padrona che lo richiamava alla ciotola. Era ora di
mangiare.
La sera era calata, e dormivano fianco a fianco, uniti anche nei sogni. Una
nera presenza, antica come la vita stessa, aleggiava nella stanza. Oreste
aprì gli occhi, sapendo bene chi lo stesse aspettando. Ai piedi del letto
attendeva la Morte, e il suo volto era quello di tutte le creature che prima
o poi l’avrebbero incontrata. Era pronto, ma capì immediatamente che non era
venuta per lui. Il respiro della sua amata padrona era pesante, debole. Se
il cuore di un gatto si può spezzare, quello di Oreste andò in frantumi,
liberandolo di una delle proverbiali vite. E deciso a difenderla con le
restanti, ringhiò alla Morte, coraggioso come un leone.