Un attimo prima
di aprire gli occhi, Demetrio crede di essere sfuggito ad un incubo. Come
quando durante una gara in bici siete primi, in discesa e non avete più
bisogno di pedalare. In quel passaggio sottile dell’esser restituiti al
giorno come un albume scivola dal guscio d’uovo, sente una leggera aria
fresca. Un soffio, intermittente.
Il ticchettio della sveglia sul comodino scandisce gli ultimi passi prima
del risveglio e quando le iridi scure cominciano a mettere a fuoco il
panorama famigliare, sonno e veglia sono ancora sovrapposti e indefinibili.
La tv al plasma sulla parete di fronte al letto assomiglia più ad una forma
ovale, sfocata e orizzontale. La carta da parati sembra tessuto epiteliale,
pulsante.
La temperatura del corpo sale e la vista diventa sempre più lucida, ma il
senso che dovrebbe mettere a fuoco luci, figure e posizione delle cose lo
sta tradendo.
L’angoscia cresce quando capisce che quel leggero soffio d’aria che sentiva
è provocato dal batter di ciglia di un enorme occhio che ha preso forma sul
muro che lo divide dalla camera di sua madre. Uno sguardo freddo, severo.
Come lo è stato quello di sua madre nei suoi confronti, in alcune occasioni
nel loro difficile rapporto.
La stanza ora respira profondamente. Un grosso contenitore organico, una
gabbia toracica di cemento e carta che si nutre del respiro di Demetrio,
scollandolo lentamente dalla vita.
Vorrebbe gridare, chiamare sua madre ma, non solo non ha abbastanza aria nei
polmoni per farlo, ma sente che sua madre è già lì, accanto a lui, dentro la
sua testa, sotto le coperte, tra le sue mani, mescolata alla sua saliva
abbondante; sciolta nel suo sangue.
Lo avvolge tra le sue braccia di carta da parati azzurra e lui le stringe il
collo, fino all’ultimo respiro, fino all’alba vicina.