Il sangue è sempre poco e lo lecco subito.
I frammenti di pelle e peli, invece abbondano, ma a volte sono sottili e mi
sfuggono.
Del sudore, e quello c’è sempre, riconosco persino l’origine: rabbia,
irritazione, rancore, invidia...
Faccio parte di una famiglia cattiva, anche se non mi sento uno di loro.
Torna da scuola con la maglietta sporca e strappata, un occhio pesto.
«Giocando a pallone? Quante volte ti devo dire di non raccontare bugie!»
La sberla arriva prima d’ogni giustificazione.
Strappo fibre dai jeans, dalle cuciture, dagli orli sfilacciati. Le
mastico assieme all’acqua sporca, alla terra, a pezzi di cibo e sapone. Ne
faccio poltiglia.
Avrei bisogno di bottoni, ma riesco a strapparli solo quando sono già
scuciti.
Perché mi tengono prigioniero qui?
«C’era coda al supermercato, scusami... ora preparo».
Lui si nasconde dietro il giornale, non risponde.
«Sei arrabbiato?»
«Stai zitta», sibila, «troia», aggiunge tra i denti.
A volte faccio rumore, strappando una cerniera o lasciandomi cullare
dall’acqua tiepida.
Lei arriva, apre la porta e fissa perplessa la penombra.
Io mi sono già nascosto negli angoli, contratto.
Quando se ne va, mi acciambello tra i vestiti umidi.
‘Sì. Moglie via col bambino tutto giorno. Vieni da me?’.
E prima di ricevere l'SMS di risposta, ha già messo in fresco il vino.
Devo fuggire.
Mi sento schiacciato, asfissiato.
Sono cattivi e li odio. Tutti.
Mi accartoccio sulla coda...
L’oblò della lavatrice si spalanca con uno schianto e la creatura le si
avventa contro.
Ha bottoni per occhi, per squame i denti delle lampo. Centesimi arrugginiti
formano una cresta tagliente, lungo il corpo serpentiforme pulsante di
sporcizia e umori, di tessuti e cattiveria.
Trova la bocca di lei, spalancata dallo spavento, e s’infila.
Squarcia l’esofago, riempie polmoni e viscere cercando una via d’uscita.
Poi, avida, striscia verso le scale.