Sono quasi le 5
pomeridiane e mi trovo ancora in casa con mille impegni che mi aspettano
fuori. Devo avvisare Gino che ci sono le patate da caricare; comprare il
formaggio dal pastore; pagare la magliaia... Infilo il cappotto per andare
al telefono pubblico, all’osteria.
Esco nel cortile squallido e attraverso il villaggio. Case grigie, diroccate
con muri di mattoni corrosi; dalle fessure alle finestre si vede un filo di
luce e il fumo esce dai comignoli. Ma altre case sono abbandonate e sono
fredde e buie. Più oltre si stende la campagna desolata con stoppie.
Un vecchio intabarrato spinge una carriola di legna da ardere. Un fosso
d’acqua corre lungo gelsi e salici squarciati. Svolto bruscamente l’angolo
dell’ultima casa e mi fermo allibito.
Il tramonto di Novembre irrompe nella mia anima, sconvolgendola. Pensieri,
impegni, preoccupazioni sono subito dimenticati.
Una ferita di luce attraversa il cielo versando oro e rame nel piombo della
sera. Carri di nuvole spandono inchiostri turchini, rosetta, porpora,
azzurrognolo. Torrioni obliqui rosseggiano fra muraglie violacee. Da un
ribollire di nubi spumeggianti si elevano cappelli stregoneschi, draghi e
una raggiera di madreperla.
Il tramonto di Novembre atterrisce l’anima con colori imputriditi che
squarciano il cielo in macchie di disperazione. Tutto il mistero
dell’esistenza è riproposto qui. Il sole rosso marcio è una sfera delle
visioni dove vedo tutto il mio passato, i giorni sprecati, gli anni finiti,
gli amori e le illusioni.
E il futuro è anch’esso davanti a me. Un futuro di tedio, di sofferenze, di
lunghi momenti di solitudine e di spegnimento.
C’è un grande silenzio intorno. Il tramonto di Novembre è come un sipario
alzato sulla precarietà della vita, sull’inutilità degli sforzi, su
giovinezza e amori fuggiti. Sulla soglia del tempo percepisco un senso di
vuoto, di disfatta. Le bellezze sono sfiorite, le gioie estinte e dalle loro
ceneri è formato lo spettro del mio futuro, quello che mi aspetta e nel
quale sto per inabissarmi...
Poi la nebbia sale, tutto sbiadisce e si offusca. Io riprendo il cammino
sulla strada sassosa. In fondo alla via dopo il pioppeto spoglio, c’è
l’osteria col pergolato secco dei glicini.
L’evocazione è finita, la visione è passata e rientro negli stretti corridoi
dello spazio e del tempo.
Cammino ascoltando il rumore delle scarpe sui sassi. Oltrepasso i ceppi
marciti dei platani, la pompa sbilenca, il vespasiano grigio e sudicio.
Questa camminata è inutile; la destinazione ha perso importanza; eppure
continuo a camminare per raggiungere la meta. Forse ho oltrepassato una
soglia e sono entrato nella maturità della vita. Guardo il passato,
rimpiango i pochi momenti piacevoli fra i macigni del caso e delle
avversità.
Non più tramonto adesso. Un crepuscolo livido e velenoso porta rimpianti e
ricordi taglienti come coltelli.
Finalmente arrivo davanti all’osteria. Spingo la porta ed entro dentro.
Fumo, caldo, gente che beve. È l’oblio momentaneo per i terrori spietati
dell’Esistenza.