Ciak, si gira!

«Ti prego, non mordermi. Non voglio morire», si stagliò nell’aria una voce petulante.
«Ma tu non morirai. Tu vivrai per sempre», eruppe l’altra voce, lugubre e impostata.
«STOP!», urlò adirato un terzo. «Non ci siamo ragazzi. Marina, si può sapere che ti prende? Non erano queste le battute».
«Scusa Ric, mi sono confusa. Mica sono un’attrice professionista», ribatté tra il mortificato e il piccato.
Riccardo sbuffò spazientito. «Ci dobbiamo impegnare se vogliamo vincere il premio dell’Horror Cinefestival».
«Ha ragione, se siamo noi i primi a non crederci, perché mai la giuria ci dovrebbe assegnare il primo posto?», Mauro fu concorde con l’amico.
Marina alzò le mani in segno di resa. «Ok, avete ragione voi, starò più attenta. Anch’io ci tengo a vincere, sono bei soldi. È solo che mi sento una cretina a dire certe cose e la faccia di Mauro non m’ispira certo terrore».
«Adesso sarebbe colpa della mia faccia? Da non credere».
«Marina non ha tutti i torti. Sei poco credibile nella parte del vampiro millenario. Senza offesa, hai un viso troppo aperto».
«Visto, che ti dicevo?».
Mauro si rabbuiò per un istante, «Cosa suggerite? Più trucco?».
Riccardo scosse il capo, «Un terzo attore».
«E dove lo troviamo un altro scemo disposto a fare la parte del barone Baltazar Aleksander Lucjen III di Transilvania, che sappia recitare e imparare in fretta questa specie di copione».
«Marina, è una continua sfiducia la tua», constatò rammaricato Mauro.
«Faremo dei provini. Stamperemo dei volantini e li distribuiremo all’Università. Vedrete che saranno in molti a presentarsi», decise risoluto Riccardo.
Marina sbuffò. «Significa che, in caso di vincita, dovremo dividere il montepremi con un'altra persona».
I due amici la guardarono con rassegnazione.

I provini furono un inaspettato successo al punto che dovettero dividere le audizioni in due giornate. Si presentò ogni tipo di persona, perfino una ragazza dai tratti molto mascolini.
Un biondino abbronzato che sarebbe stato perfetto per la parte del surfista californiano, un ragazzo talmente grasso che faceva fatica a deambulare con scioltezza.
Un balbuziente, uno straniero che non spiccicava una parola d’italiano, un egocentrico megalomane che voleva cambiare l’intero copione.
Un timido cronico che fece scena muta, uno che arrivò agghindato, secondo la sua visione, da Dracula. Ma più che altro sembrava una drag queen.
Dopo sette ore di provini i tre ragazzi erano stravolti e demoralizzati.
«Per fortuna che il problema era la mia faccia. Avete osservato questi tizi?», gracchiò Mauro.
«Non ho mai visto tanti brutti ragazzi tutti insieme», constatò Marina allibita.
«Non è detto che un vampiro debba essere bello per forza. Non stiamo girando Twilight! Il problema è che erano tutti scialbi, senza un briciolo di personalità e presenza scenica. L’obiettivo della telecamera li ha annientati uno a uno», replicò Riccardo pensieroso.
«Mi auguro che domani le cose migliorino o dovrete accontentarvi della mia faccia aperta», disse ironico Mauro.
La giornata successiva non ebbe un vero esito positivo, ma senza dubbio si rivelò migliore della precedente. Si presentarono un paio di ragazzi papabili, uno perfetto per i suoi requisiti fisici: piuttosto alto, capelli scuri, viso scavato, occhio profondo.
L’altro dotato di una buona capacità recitativa, spontanea e chiara, sulla scena sembrava essere padrone dei suoi movimenti. I tre amici discussero a lungo sui due, mentre la discussione si faceva accesa, qualcuno suonò il citofono.
«Sono in ritardo per il provino del film “Il Barone nero”?», chiese una voce cavernosa.
Mauro esitò per un istante. «No, vieni pure. Terzo piano», andò ad avvisare gli amici, «ragazzi, c’è un ritardatario».
Riccardo inarcò le sopracciglia. «Credo sia ormai superfluo averlo fatto salire».
«Mi sembrava brutto rifiutarlo, è venuto fin qui. Mica è un casting di Spielberg».
«È permesso?». Quella voce rauca li fece girare di scatto.
Marina allargò un sorriso sfacciato. «Vieni, accomodati pure. Come ti chiami?».
«Ulrich».
Se ne resero conto tutti e tre, fisicamente era la persona ideale: non bello ma intrigante, un metro e novanta circa di altezza, corpo snello ma muscoloso, folti capelli bruni, occhi neri dal taglio molto particolare, carnagione diafana, volto dai lineamenti marcati e naso aquilino. Era perfetto.
Una di quelle persone la cui fisionomia difficilmente ti puoi dimenticare, se fosse stato anche in grado di recitare, i tre aspiranti registi si sarebbero potuti ritenere soddisfatti.
Quando il ragazzo provò la parte, gli occhi di Riccardo s’illuminarono: il barone Baltazar Aleksander Lucjen III di Transilvania si era appena materializzato davanti a loro.
Gli affidarono senza esitazioni il ruolo, gli consegnarono il copione e gli diedero appuntamento per il giorno seguente, per l’inizio delle riprese.
Ulrich ringraziò e si congedò dal terzetto.
«Che colpo di fortuna!», Marina batté i palmi delle mani sul tavolo di legno.
Mauro le sorrise sollevato, «Avete visto? Ho fatto bene a farlo salire. Fosse stato per voi, ci saremmo dovuti accontentare di quelle due mezze seghe».
Riccardo scoppiò a ridere, anche lui entusiasta. Finalmente “Il Barone nero” cominciava a prendere una forma reale.
Si salutarono con l’accordo di vedersi presso il teatro dell’Università dove erano riusciti ad allestire un casereccio set degli interni della cupa casa del vampiro transilvanico.

 

Quando Ulrich vide il set scoppiò a ridere, i denti bianchi del ragazzo brillarono nella penombra della sala. «Questa riproduzione non ha nulla di vampiresco».
Riccardo si risentì. «Sei amico di qualche vampiro e conosci i suoi gusti in fatto di arredamento?».
Il teutonico ragazzo gli restituì un riso beffardo. «È tutto sbagliato», si avvicinò al divano in cuoio posto al centro della scena, «sembra che stiate facendo una svendita di roba vecchia nel vostro garage. E poi l’ambiente è troppo piccolo».
Mauro tentò una garbata replica. «Volevamo modernizzare il racconto, dato che è ambientato in Italia, in una città, ci sembrava inopportuno collocare la casa del succhiasangue in una brughiera e farla diventare un castello in pietra. Un po’ un cliché, non credi anche tu?».
«Sono d’accordo sulla modernizzazione, ma anche in Italia ci sono ville isolate, c’è la nebbia e paesaggi lugubri. Perché non andiamo a casa mia? Gireremo gli interni lì», non sembrò attendere risposte.
Uscì dal teatro risoluto, tirandosi dietro i due ragazzi perplessi e una Marina adorante.

 

La strada per arrivare a casa del ragazzo era piuttosto lunga e tortuosa.
Non abitava nel cuore della città, ma in un posto isolato, a una quarantina di chilometri dal centro. Bisognava ammettere che era davvero suggestivo, una grossa villa unifamiliare completamente immersa nel verde.
Mauro seguiva la vettura del ragazzo che faceva da battistrada.
Marina si produsse in un rumoroso “Oooh” estasiato.
«Alla faccia!», esclamò Riccardo.
«Mi sa che il ragazzo è un gran bel figlio di papà», considerò Mauro.
Quando il pesante cancello automatico si schiuse, davanti agli occhi dei ragazzi si palesò il parco privato che, tra fontane e alberi maestosi, conduceva all’ingresso della grande abitazione rosso mattone. La ghiaia del viale scricchiolò sotto le gomme delle vetture.
Ulrich scese con gesto elegante dalla sua spider e venne accolto immediatamente da un uomo di mezza età, piuttosto ossuto e in livrea.
«Signor Sânge, ben arrivato», disse l’allampanato uomo.
«Oh cazzo, questo c’ha pure il maggiordomo», ridacchiò quasi istericamente Riccardo.
«Non credo che abbia bisogno dei soldi del premio», notò subito Mauro.
Marina li guardò sdegnata per la grossolanità che stavano dimostrando, sempre più eccitata dalla situazione che si stava creando.
Se solo avesse saputo chi era Ulrich, si sarebbe messa un vestito più sexy.
Il ragazzo scambiò alcune parole col maggiordomo, probabilmente in tedesco perché nessuno di loro capì nulla. Il signore in livrea annuì e fece un inchino, poi si dileguò dietro il portone d’ingresso.
«Accomodatevi pure», invitò i suoi amici con un gesto del braccio.
Sembrava una casa da film, un enorme ingresso con pavimenti in marmo scuro, una barocca scalinata con ringhiera decorata da arabeschi che si arrampicava verso l’alto. Un ballatoio che dava accesso a numerose stanze, dalle massicce porte convenientemente sigillate.
Sulla destra, il crepitio di un fuoco acceso esortava gli ospiti ad accomodarsi.
La grande sala era proprio come ci si aspettava che fosse, stampe di antiche carte geografiche appese ai muri, una testa imbalsamata di cervo, grossi alari che dominavano ai lati delle fauci di un maestoso camino.
Preziosi divani damascati, una lunga servante in noce massello in stile cappuccino, probabilmente di artigianato francese di fine ‘800.
«Adesso capisco perché la nostra scenografia ti ha fatto schifo», riconobbe Riccardo.
«Credo che si possa girare qui nella sala la scena di oggi».
Il terzetto annuì in contemporanea.
«Ma prima ho chiesto a Moarte di farci preparare la cena».
Consumarono una cena sontuosa, bevvero forse qualche bicchiere di troppo di un ottimo e irrifiutabile Bordeaux d’annata.
«I tuoi genitori dove sono?», chiese d’un tratto Marina.
Nella mente della ragazza, Ulrich era un orfano che viveva agiato nel lusso ereditato dalla sua famiglia, già si vedeva nelle vesti di sua moglie, la ricca e bella signora Sânge.
«Sono in viaggio d’affari all’estero», fu la deludente risposta.
«Direi che è giunta l’ora d’imbracciare la telecamera e consumare un po’ di pellicola prima che gli effetti del vino diventino invalidati», così dicendo Riccardo si alzò dalla sedia e andò a prendere l’attrezzatura.
Mauro si tamburellò la pancia, rimanendo pigramente appollaiato sulla sedia.
Marina gli diede uno schiaffo sulla nuca. «Alzati e vai a prepararti, razza di caprone screanzato», rivolgendo un sorriso mieloso a Ulrich, «perdonali, in certe situazioni non sanno come comportarsi».
Mentre stendeva il trucco di scena sul suo fresco viso da venticinquenne, Marina già stava pensando al modo per rimanere sola con l’aristocratico tedesco. Si sarebbe mostrata dolce, gentile e raffinata.
Il ragazzo non avrebbe potuto in alcun modo rifiutarla.

 

«Azione», ordinò Riccardo incollato alla macchina da presa.
La scena si svolgeva in casa del Barone nero che, dopo aver sedotto la giovane ragazza, stava giocando con lei al gatto col topo. Purtroppo, questa aveva scoperto troppo tardi che il Barone era in realtà un sanguinario vampiro che l’avrebbe uccisa in modo brutale.
Ma, colpo di scena, il fidanzato della malcapitata era riuscito a scoprire la torbida identità del Barone ed era corso in aiuto della sua amata.
«Oh, Frank, amor mio. Sei venuto a salvarmi nonostante tutto», mugolò Marina.
Mauro si produsse in un’espressione fiera e drammatica. «Lo so che non è stata colpa tua, lui è un vampiro. Ti ha ammaliata».
Sulla scena irruppe Ulrich.
Accidenti, che trucco realistico, doveva essersi procurato lui stesso i mezzi per realizzarlo, pensò Riccardo dietro la telecamera. Gli aguzzi canini erano così affilati da sembrare taglienti come le lame di un rasoio, il volto esangue e slavato era marcato ancor di più da due cupe occhiaie bluastre che si allungavano fin sugli zigomi.
E poi quel verso rantolante da tigre affamata, era veramente azzeccato.
Era più di quanto avesse sperato, la scena stava venendo perfetta.
Ulrich cominciò a sbavare copiosamente, comparve Moarte che di scatto chiuse ermeticamente le porte della sala dove stavano avvenendo le riprese.
Si sentì un rumore inquietante, uno scricchiolio di ossa.
La schiena di Ulrich cominciò a contorcersi, mossa da spasmi interni. Una minacciosa gobba ossuta sollevò lo scuro mantello nero. Il mostro, che una volta era stato Ulrich, si avventò in modo animalesco su Mauro e Marina che, inebetiti, non ebbero il tempo per reagire.
Il sangue era ovunque, sul pavimento, sulle tende, sul divano.
Marina, boccheggiante, cercò di sgattaiolare verso la finestra, nella speranza di trovarla aperta.
Il vampiro l’artigliò con le lunghe e ossute mani, il rumore secco di un osso rotto, probabilmente il femore della giovane sciagurata. Mauro giaceva inerte, accasciato in un angolo, occhi sgranati, una perdita d’urina a insudiciargli i pantaloni già intrisi di liquido rosso.
Non faceva che urlare e urlare, così realisticamente.
Riccardo continuò a riprendere la scena, sordo alle richieste d’aiuto dei suoi amici che venivano prosciugati e barbaramente dilaniati, frame dopo frame.
Come in stato di trance, con l’occhio sgranato fissava l’orrore filtrato dall’obiettivo.
Forse sarebbe toccata anche a lui la stessa sorte.
Ma se fosse riuscito a scappare, avrebbe di certo vinto il primo premio all’Horror Cinefestival.

Eleonora Della Gatta