Era da tempo che volevo entrare in quella casa. Una casa maledetta, dicevano
i ragazzi che per scherzo si sfidavano ad entrarvi. Ma se anche rischiavano
di passare per codardi nessuno osava valicare il cancello socchiuso.
Guardai la facciata di quell’edificio. Gli sfarzi di un tempo passato
stavano cadendo a pezzi. L’intonaco si era scrostato, gli alberi cresciuti
troppo vicini sferzavano con i loro rami le finestre che erano per la
maggior parte senza vetri. Osservandola in pieno giorno si aveva
l’impressione che risucchiasse la luce. Sembrava che sopra quella casa vi
fosse sempre una nuvola a gettar la sua ombra sul tetto e sul prato
ingiallito e secco.
Non ero un ragazzo particolarmente socievole. Non perché non volessi. Era
una condizione dettata dalle scelte degli altri che non trovavano nulla di
straordinario nella mia persona. Ma non ero del tutto solo. Avevo due amici
con i quali condividevo tutto: i sogni e le poche speranze che avevo.
Un giorno passando davanti alla casa delle Strie, così la chiamavano,
vidi un gruppo di ragazzi che facevano l’unico gioco che nel nostro piccolo
paese scatenasse un briciolo di adrenalina. Si sfidavano a chi si
avvicinava di più alla casa maledetta.
Maledetta! Ridevo quando sentivo quella parole. Che stupidaggine la
superstizione. Certamente era spettrale ma di certo non potevo credere che
all’interno vi dimorassero spiriti malvagi. Avrei lasciato perdere, e
sarebbe stato meglio, se non avessi visto la felicità e la complicità che
quei ragazzi mostravano nel momento in cui uno di loro falliva e si
ritirava. Così proposi ai miei due unici amici di fare la stessa cosa.
Stefano mi rise in faccia e con il volto teso e bianco disse: «Non se ne
parla. Non lo farei mai e poi mai!»
«Non avrai paura! Non crederai che ci siano veramente dei mostri in quella
casa?» Gli chiesi irritato dalla sua risposta negativa.
«Io non ho paura», disse Michele facendomi voltare verso di lui, «ma
eviterei volentieri. Quella casa è lì da chissà quanti anni, sicuramente è
più vecchia dei nostri nonni e potrebbe cadere da un momento all’altro».
«Quella casa non cadrà mai!» Esclamò Stefano ancora cereo in volto. «Quella
è la casa delle Strie. È maledetta e non è soltanto una leggenda. È
la verità! Alcuni ragazzi hanno detto che di notte si sentono lamenti
terribili, simili a versi di animali sofferenti. Rumori mostruosi che fanno
scendere il gelo lungo la schiena. Mio cugino che ha già provato a fare
questo gioco una notte, mi ha detto che non ci sarebbe mai più tornato. Era
riuscito ad entrare nel giardino e già la vista di quel luogo lo aveva
terrorizzato, era come se la notte fosse più buia lì dentro. Si è fatto
coraggio, perché i suoi amici erano fuori dal cancello a guardarlo, e si è
avvicinato alla finestra del pian terreno che dava su una grande stanza. Ha
detto che c’era polvere ovunque, sul pavimento, sui mobili quasi marci. Alle
pareti c’erano quadri assurdi e in fondo alla stanza uno specchio che aveva
scambiato per un altro quadro». Rabbrividì.
I due ragazzi osservarono l’amico in silenzio.
«Lo aveva scambiato per un quadro perché in quello specchio c’era il volto
di una donna, orribilmente bianco e deformato. La bocca storta e aperta in
una smorfia, poi... la donna si è mossa e per poco mio cugino non è morto
dalla paura». Esclamò spostandosi leggermente sulla sedia. Aveva gli occhi
lucidi per la paura nel ricordare quel racconto.
Deglutii a fatica. Avevo come un nodo in gola. Al mio fianco vedevo Michele
che appariva terrorizzato e sicuramente quella notte non avrebbe dormito.
Anche io mi sentivo leggermente turbato ma non avrei lasciato correre.
Pensavo che fossero ragazzate. Tutti i ragazzi raccontano storie per
spaventarsi a vicenda.
«Io domani sera ho intenzione di andarci comunque». Dissi risoluto. «Che voi
vogliate o no!». Aggiunsi sperando accettassero di venire con me.
«Tu sei pazzo!» Si limitò a dire Stefano che non aveva nessuna intenzione di
seguirmi.
«Sì è vero». Si aggiunse Michele. «Perché vuoi fare una cosa così? È
inutile».
«Non siete stanchi di essere sempre chiusi in casa?» Esclamai sapendo che
anche loro erano stanchi del nostro circolo dell’amicizia. Non perché non
andassimo d’accordo ma per il bisogno di sentirsi come gli altri ragazzi.
«Lo fanno tutti!» ,continuai, «anche oggi ho visto un gruppo di ragazzi
farlo».
I due si scambiarono un’occhiata e capii di aver fatto centro.
«Sai perché la chiamano così? Casa delle strie?». Disse Stefano in un
filo di voce. «Si dice che un tempo fosse la casa di due sorelle, due
streghe. Mia nonna c’era quando successe. Era una ragazza di sedici anni
quando le due sorelle acquistarono la casa. Erano giovani anche se più
vecchie di mia nonna e senza marito. Da quel giorno iniziarono le stranezze.
Per le strade venivano trovati animale sventrati come se fossero stati
feriti da qualche predatore e durante la notte a volte si udivano versi
inumani, mostruosi. Poi iniziarono a sparire i bambini. Ogni anno ne
sparivano e non li ritrovavano più. Tutto era iniziato con l’arrivo delle
due sorelle, così un gruppo di uomini armati di forche e accette fece
irruzione nella casa e le trovarono. In una stanza, sotto l’enorme casa, le
due donne praticavano qualcosa di oscuro. In una nicchia trovarono i corpi
dei bambini rapiti di recente e le ossa di quelli più vecchi».
Fece una breve pausa. «Da quel giorno bambini non ne spariscono più!»
«E che cosa ne è stato delle due?» Domandò Michele con un filo di voce.
«Non si sa. Mia nonna mi ha detto che gli uomini uscirono portando fuori i
corpi dei bambini ma delle due nessuno chiese niente. Avevano già capito
tutto».
«Le hanno uccise». Dissi riuscendo finalmente a deglutire.
«Credo di sì. Nessuno ne è sicuro, tranne gli uomini che entrarono nella
casa, ma non dissero niente e nessuno domandò nulla».
«Sono leggende». Dissi per finire quella discussione. «Domani andrò là
dentro così potrò raccontare agli altri ragazzi che si sono lasciati
spaventare per niente».
La sera del giorno dopo ci ritrovammo davanti al portone socchiuso che
cigolava spinto da un leggero vento. Non so come avevo fatto a convincere
Stefano e Michele. Erano venuti dicendomi che sarebbero rimasti fuori dal
cancello e che non sarebbero entrati per niente al mondo.
Accettai quelle condizioni. Ero felice che alla fine avessero deciso di
seguirmi, mi rassicuravano un po’. Ora che mi trovavo davanti al portone in
ferro mi sentivo piccolo e agitato. Le mani sudate chiuse a pugno nel
tentativo di non far vedere a Michele e Stefano che stavano tremando.
«Vado». Dissi a bassa voce. Loro si limitarono a un debole cenno con la
testa.
«Guarda se c’è ancora lo specchio». Mi disse all’ultimo momento Stefano
afferrandomi un polso. «Se c’è una faccia scappa e torna qui».
«Non ci sarà niente». Gli dissi per rassicurarlo. Averlo visto così turbato
mi aveva dato più coraggio. Ero il più forte.
Spinsi leggermente l’anta del portone ed entrai nel cortile. Il piccolo
sentiero in pietra che portava alla porta d’ingresso era pieno di erbacce
che crescevano alte. Il giardino era immerso nel buio. Il lampione posto
sulla strada davanti alla casa era spento e gli alberi alti gettavano
un’ombra che faceva la notte più buia di quanto già non fosse.
Arrivai alla finestra strisciando tra l’erba alta e giallastra. Mi affacciai
stando attento a non ferirmi con i vetri sparsi sul davanzale. Con lo
sguardo vagai per la stanza sino a quando incontrai il riflesso dello
specchio. Il cuore iniziò a battere all’impazzata e sentii alcune gocce di
sudore freddo scendermi lungo il petto.
Non c’era niente. Solo il nero si rifletteva in quello specchio in parte
rotto. Nulla di preoccupante. Tirai un sospiro di sollievo.
Tornai al portone per dirlo a Stefano e Michele. Con il sorriso li presi in
giro e li costrinsi con l’insistenza a seguirmi. Ora anche davanti ai loro
occhi c’era lo specchio rotto e si lasciarono andare a un sospiro.
Senza pensare saltai sul davanzale ed entrai nella casa con le loro voci,
che mi dicevano di non farlo, come sottofondo.
«Venite?» Gli chiesi continuando a prenderli in giro.
Loro non si muovevano.
«Tuo cugino voleva spaventarti. Ti ha preso in giro. Quando usciremo ci
inventeremo anche noi una storiella».
Dopo un lungo e reciproco sguardo, Michele e Stefano attraversarono a loro
volta la finestra.
Passammo attraverso la grande sala. Nella casa regnava l’oscurità e l’odore
di polvere e muffa. Accesi la torcia che mi ero portato da casa e illuminai
le pareti. Le cornici di legno dei quadri erano marce e le stesse tele erano
umide e piene di muffa. I ritratti erano ridotti a volti mostruosi e
deformati.
Attraversammo un piccolo corridoio nel silenzio totale. Mi fermai e con la
torcia illuminai alla mia destra dove si era fermato Stefano. Una rampa di
scale scendeva in quella che doveva essere la cantina. Spostai la torcia a
sinistra dove c’era Michele. Dietro di lui soltanto una porta che dava al
nero. Era tutto normale e silenzioso. La paura stava scemando in tutti e tre
quando udimmo un rumore. Fu il primo di tanti. Un verso, un lamento
terribile quasi bestiale. Sentii Stefano irrigidirsi e chiedere
disperatamente cosa era stato.
«Ve l’avevo detto che era una casa vecchia!» Esclamò Michele terrorizzato a
sua volta. «Starà per caderci addosso.»
Ma poi lo sentimmo di nuovo e questa volta mi sembrò che provenisse da un
altro punto della casa e, cosa più inquietante, fosse più vicino.
Si fece distinto il suono di passi che si avvicinavo. Passi strascicati e
affaticati.
«Che cos’è?» Gridò Stefano.
«Non lo so!» Gridai a mia volta spaventato come non lo ero mai stato.
«Che cos’è? Che cos’è questo rumore?» Continuò a gridare Stefano.
Poi ancora quel lamento, un latrato terribile e così vicino da farci male
alle orecchie.
«Qualcosa mi ha toccato! Qualcosa mi ha toccato!» Gridò isterico Michele con
una voce quasi femminile. In quel momento sentii le sue mani stringersi
intorno al mio braccio.
Poi l’ultimo suono che non ho più dimenticato. L’urlo di Stefano.
Istintivamente urlai a mia volta e lo stesso fece Michele. Puntai la torcia
nella sua direzione. Ma non era dove doveva essere. Abbassai il raggio
luminoso e lo individuai, mentre un essere mostruoso lo trascinava giù
nella cantina. La creatura bianca sembrava a prima vista una vecchia ma non
poteva esserlo. La schiena era ricurva, in parte ricoperta da un abito
squarciato dal quale passava un pelo nero e irsuto. Il volto bianco era
mostruoso. La bocca, spalancata in una smorfia distorta, sbavava. Si
contorceva in un modo innaturale mentre trascinava Stefano nel buio le cui
urla continuarono, poi di colpo si trasformarono in liquidi rantoli.
Tutto accade in pochi secondi. Mi voltai di scatto per tornare alla finestra
e lo stesso fece Michele. Puntai la torcia davanti a me e il cuore mi si
fermò davanti a quel volto. Lo stesso che avevo appena visto. Era il volto
di un morto, solo gli occhi ardevano di una fame insaziabile.
Mi gettai di lato e corsi alla finestra lanciandomi fuori nel giardino.
Senza fermarmi corsi al portone e uscii.
Mi guardai attorno mentre riprendevo aria.
Michele! Dov’era? Stavo per gridare come un pazzo quando lo vidi
sbucare da dietro un albero. Correva spaventato a morte e dietro di lui una
figura bianca si agitava inseguendolo. Lo aveva quasi raggiunto quando
riuscì ad uscire dal giardino attraversando il portone. La mostruosità si
fermò di colpo e rimase a guardarci. Le braccia a penzoloni. Toccavano quasi
terra. La bocca spalancata e piena di bava.
Ci voltammo e corremmo via.
«Il giorno seguente Michele si gettò dal primo piano di casa sua. Io sono
venuto qui». Dissi al poliziotto.
Il giorno seguente sui giornali apparve la notizia:
RITROVATI GLI SCHELETRI DI DUE DONNE E IL CADAVERE DI UN RAGAZZO SBRANATO
DA QUALCHE ANIMALE IN UNA VECCHIA CASA ABBANDONATA