Bobby

Vincitrice del concorso "Premio Scheletri", 2012 - edizione 4

La stanza era buia, l’assenza di mobilio ne evidenziava la dispersiva grandezza.
I muri, dipinti di bianco, amplificavano i raggi argentei che timidi si facevano largo dall’unica finestra, posta sulla destra della parete. In lontananza, l’instancabile frinire di una cicala funzionava da commento musicale alla staticità di una scena muta.
Bruciava tutto. Pulsava insistentemente. Faceva così male che l’unica soluzione sarebbe stata la morte. Ma quale morte, se non si poteva parlare nemmeno di vita? E forse questa era la cosa più assurda di tutte, più del fatto che Bobby fosse vivo, era che avesse piena coscienza di tutto ciò che lo circondava. Lui stesso si trovava a chiedersi come una crudeltà simile fosse stata possibile.
Bobby desiderava ardentemente di potersi muovere, scappare da quel luogo penoso, ma non aveva articolazioni che gli potessero consentire il minimo movimento.
Eppure sentiva il dolore, sentiva e vedeva tutto, ogni acuta fitta di morte quando le fiamme avvolgevano il suo immobile corpo di carbonio, i volti sadici di Tacchi e De Giulio che lo osservavano bruciare e ancora bruciare, senza pietà.
I sensori suonavano. Ustioni su tutto il corpo, terzo grado, primo grado. Gli ingegneri li spegnevano solertemente uno a uno, ma ciò che non spegnevano mai era la pungente sofferenza di Bobby.

Questo si ripeteva ogni giorno, più volte al giorno. Un lungo mese di torture era passato da quando aveva preso il posto dell’altro manichino con cui gli ingegneri provavano l’efficienza delle tute ignifughe. Bobby non voleva essere rimpiazzato da nessuno, non aveva intenzione di finire carbonizzato come gli altri. Buttato in cassonetto, come un oggetto qualunque privo di ogni valore. Immondizia. Non dopo tutto il male di cui si era fatto carico.
Accadde d’improvviso, un movimento della mano destra, Bobby ne fu stupito, estasiato. Sentì qualcosa di diverso dentro di lui, qualcosa che ronzava e scalciava. Si staccò dalle staffette di metallo che lo tenevano in piedi.
Si muoveva, si muoveva! Lo avrebbe voluto gridare con tutte le forze.
La rabbia unita al dolore era un potente incantesimo che nasceva dalle viscere della frustrazione.
Un passo dopo l’altro, il primo incerto, il secondo fiducioso, il terzo baldanzoso, il quarto quasi rapace. Cosa voleva davvero Bobby ora che era libero?
Una parola rimbombò ostile nella sua testa: vendetta.
Un silenzio compatto accolse il rumore di vetri rotti. Schegge appuntite caddero sul prato umido, Bobby poggiò i piedi sul verde suolo che aveva il sapore della libertà. Sempre più padrone dei movimenti del suo corpo speciale, si diresse verso l’alta cancellata che lo separava dal mondo reale. Al di là di essa una lunga strada asfaltata, immersa in un buio ovattato e invitante.
La casa dell’ingegner Tacchi non era molto lontana dai laboratori della Tech srl. Sarebbe stato sufficiente mettere un piede davanti all’altro e condire il tutto con la perseveranza.

Eleonora Della Gatta