La stanza era buia, l’assenza di mobilio ne evidenziava la dispersiva
grandezza.
I muri, dipinti di bianco, amplificavano i raggi argentei che timidi si
facevano largo dall’unica finestra, posta sulla destra della parete. In
lontananza, l’instancabile frinire di una cicala funzionava da commento
musicale alla staticità di una scena muta.
Bruciava tutto. Pulsava insistentemente. Faceva così male che l’unica
soluzione sarebbe stata la morte. Ma quale morte, se non si poteva parlare
nemmeno di vita? E forse questa era la cosa più assurda di tutte, più del
fatto che Bobby fosse vivo, era che avesse piena coscienza di tutto ciò che
lo circondava. Lui stesso si trovava a chiedersi come una crudeltà simile
fosse stata possibile.
Bobby desiderava ardentemente di potersi muovere, scappare da quel luogo
penoso, ma non aveva articolazioni che gli potessero consentire il minimo
movimento.
Eppure sentiva il dolore, sentiva e vedeva tutto, ogni acuta fitta di morte
quando le fiamme avvolgevano il suo immobile corpo di carbonio, i volti
sadici di Tacchi e De Giulio che lo osservavano bruciare e ancora bruciare,
senza pietà.
I sensori suonavano. Ustioni su tutto il corpo, terzo grado, primo grado.
Gli ingegneri li spegnevano solertemente uno a uno, ma ciò che non
spegnevano mai era la pungente sofferenza di Bobby.
Questo si ripeteva ogni giorno, più volte al giorno. Un lungo mese di
torture era passato da quando aveva preso il posto dell’altro manichino con
cui gli ingegneri provavano l’efficienza delle tute ignifughe. Bobby non
voleva essere rimpiazzato da nessuno, non aveva intenzione di finire
carbonizzato come gli altri. Buttato in cassonetto, come un oggetto
qualunque privo di ogni valore. Immondizia. Non dopo tutto il male di cui si
era fatto carico.
Accadde d’improvviso, un movimento della mano destra, Bobby ne fu stupito,
estasiato. Sentì qualcosa di diverso dentro di lui, qualcosa che ronzava e
scalciava. Si staccò dalle staffette di metallo che lo tenevano in piedi.
Si muoveva, si muoveva! Lo avrebbe voluto gridare con tutte le forze.
La rabbia unita al dolore era un potente incantesimo che nasceva dalle
viscere della frustrazione.
Un passo dopo l’altro, il primo incerto, il secondo fiducioso, il terzo
baldanzoso, il quarto quasi rapace. Cosa voleva davvero Bobby ora che era
libero?
Una parola rimbombò ostile nella sua testa: vendetta.
Un silenzio compatto accolse il rumore di vetri rotti. Schegge appuntite
caddero sul prato umido, Bobby poggiò i piedi sul verde suolo che aveva il
sapore della libertà. Sempre più padrone dei movimenti del suo corpo
speciale, si diresse verso l’alta cancellata che lo separava dal mondo
reale. Al di là di essa una lunga strada asfaltata, immersa in un buio
ovattato e invitante.
La casa dell’ingegner Tacchi non era molto lontana dai laboratori della Tech
srl. Sarebbe stato sufficiente mettere un piede davanti all’altro e condire
il tutto con la perseveranza.