«Papi, sono stufo.» Gli occhietti neri tradivano ben
altro.
«Parla piano Amilcare, la pazienza è la virtù dei forti.»
«Siamo qui da ore, ho paura.» Iniziava a stizzirsi il piccolo.
«Paura de che?» Il suo ruolo imponeva distacco e rassicurazione.
«Dei mostri, papi.»
«La paura non esiste.» Cercava di essere un efficace sedativo alle sue
angosce da undicenne.
«Se non esiste perché me la sto facendo addosso?» Era serio e si teneva la
mano sulla patta.
All’improvviso qualcosa si mosse tra il fogliame. Un’ombra sbucò dalla
boscaglia a circa trenta metri da loro e scivolò nel vecchio casolare
diroccato, mentre l’alba stentava a dare le prime avvisaglie del nuovo
giorno.
«Ssst... è il momento, stammi dietro e guarda come si fa.»
Amilcare non ebbe il tempo di replicare, si artigliò alla cintura del padre
e lo seguì facendosi scudo con la sua imponente figura. I due uscirono dal
nascondiglio nella stalla e in una manciata di passi furono all’ingresso del
rudere.
L’uomo si schiacciò l’indice sulle labbra. Era il momento di fare silenzio.
Amilcare obbedì, malgrado la vescica congestionata e pulsante.
Il padre aprì lentamente la porta. Accese la torcia, entrarono con cautela,
lui e il suo cucciolo impaurito e gravido di urina. L’odore acre di muffa,
chiuso e marcio li schiaffeggiò.
Il bambino mostrò tutto il suo disgusto: bocca arricciata e mano sul naso
per filtrare l’olezzo nauseabondo.
La torcia vagava nervosamente per i meandri di quell’ambientazione buia e
abbandonata: mobilia scrostata e deformata dell’umidità si alternava a
qualche topo infastidito dalla visita inattesa.
Poi all’improvviso una voce gutturale e inumana fendette il silenzio,
gelando il sangue ai presenti, ratti compresi.
«Non ti facevo così stupido, Ezechiele.»
Il raggio della torcia prese la direzione della voce alle spalle dei due.
Il vampiro era lì, appoggiato a un vecchio pianoforte dalla coda monca e
dalle gambe rosicchiate dai tarli. La bocca vermiglia presentava ancora
tracce organiche dell’ultimo pasto consumato.
Il piccolo tremava, il papà no: «Lebethet, che piacere. Non dovresti essere
in qualche scantinato a dormire il sonno dei dannati?»
«Mi hai trovato alla fine, ma sei in anticipo di una mezz’ora. Ora assaggerò
te e il tuo sgorbietto.» Sorrise mostrando la sinistra e acuminata
dentatura.
L’uomo si rivolse sottovoce al bambino tradendo una certa apprensione: «Che
ore sono?»
«Le sei papi.»
Intervenne il mostro: «Ezechiele, ti sei dimenticato l’ora solare. Questa
notte gli orologi vanno tirati indietro. Sono le cinque in realtà.»
«Merda!»
In un baleno il mostro fu addosso all’uomo. I due pesi massimi delle
rispettive categorie si rotolarono a terra mentre Amilcare, atterrito,
osservava impotente. Un urlo graffiò il buio poi esplose la quiete. Pochi
istanti e dalle tenebre emerse il vincitore: era umano. L’altro giaceva tra
la polvere e gli escrementi di roditore con un paletto conficcato nel cuore.
Stremato, l’uomo abbracciò il figlio.
«Papi.»
«Dimmi, figliolo.»
«Me la sono fatta addosso, papi.»