Vidi Mario sul
marciapiedi davanti alla sua tabaccheria, inclinato come se la schiena si
reggesse contro un muro invisibile. È così che sembra quando qualcuno si
appoggia al limite del proprio cerchio, ma io sapevo che il suo non finiva
lì. Era più piccolo del mio, ma arrivava almeno al palazzo di fronte.
- Ehi, Mario, che fai?
- Non bastavano i cerchi. Adesso si restringono anche. - Stese le braccia in
avanti, ma si fermarono prima che fossero dritte.
- Così piccolo?
Sbuffò.
Un brutto presentimento si insinuò nella mia testa. - Scusa, ma devo andare.
Corsi da Lucia, al solito posto. Era ferma sul marciapiedi, qualche metro
dietro la nostra panchina. Le mani alzate, i palmi verso di me, mi fecero
tremare. Sapevo perché stava così.
Rallentai e sollevai le braccia. I miei timori divennero solidi, nella forma
di contatto con una barriera invisibile ma impenetrabile. La panchina era
irraggiungibile. Lucia era irraggiungibile.
- Lucia...
Si voltò e corse via.
- Lucia, aspetta!
Avrei voluto dirle di tornare. Che sarebbe andata bene anche così, anche se
il contatto era diventato impossibile. Anche se non ci saremmo più potuti
sedere insieme sulla nostra panchina, o mangiare al caffè all'angolo, in
quella minuscola striscia che era l'intersezione dei nostri cerchi. Ma non
riuscii a parlare. Lucia sparì in una traversa, fuori dal mio mondo.
Tornai a casa. Ero quasi arrivato quando sentii le urla. Prima gemiti
strozzati, poi strilli acuti. Venivano da tutte le direzioni. Non vedevo
niente di strano intorno a me, ma temevo ad andare avanti, perché avevo
capito.
Superai l'angolo del palazzo. Dove prima c'era Mario, ora si ergeva una
colonna rossa e bianca, larga quanto un pugno e alta più degli edifici
intorno, come un tubo di vetro pieno di liquidi misti a frammenti solidi.