Venti centimetri, forse più.
E non era un capriccio di maree, l’innalzarsi repentino dell’isola.
Ermes accartocciò il foglio, stizzito, gettandolo tra i flutti del
Mediterraneo.
«Da rifare!» gridò al collega, prima di bestemmiare e abbandonare il
cantiere.
Erano serviti decenni, a quel Paese mediocre, per approvare il progetto del
grande ponte, e ora che spettava a lui, la gloria dei lavori, la
Sicilia aveva deciso di crescere, all’improvviso, come un bambino dopo una
febbre violenta.
Rientrando in città, aveva osservato il cielo, grigio di cenere.
L’Etna, da qualche settimana, dava spettacolo. Una fontana incandescente
saliva in cielo, altissima, ricadendo su se stessa come se non volesse
disturbare. Lo scrosciare fluido della lava si spandeva per chilometri,
incessante, sollevando venti bollenti e rabbiosi: parevano il soffio di una
divinità.
L’ingegnere accostò e osservò i turisti, che affollavano un parcheggio
improvvisato. Venivano da ogni dove, a migliaia. Sarebbe dovuta sprofondare,
quella terra, non sollevarsi!
E lui, prima o poi, doveva comunicare il fenomeno, interrompendo i lavori.
Scacciò quel cruccio e cominciò a ricalcolare mentalmente la profondità del
nuovo scavo. Se non altro, a Messina, non erano spuntati gli scogli. Enormi
monoliti di pietra liscia e nera, appuntiti e ricurvi, sbucati dal fondale
davanti alla riva, nel giro di una notte. Distanziati di qualche chilometro,
alcuni si ergevano fino a un centinaio di metri.
Ve n’erano cinque sulla riva nord, a bucare il Tirreno, altrettanti a sud.
Ermes arrivò nella sua stanza e incolpò la stanchezza quando, affacciato al
terrazzo dell’ultimo piano, vide la Calabria allontanarsi e farsi piccola,
cominciando a distinguere i contorni dello stivale, mentre un boato
squassava il suolo.
Tifone, dopo millenni, esplodeva la sua vendetta.
Ermes scorse un groviglio sconfinato di serpi che oscurava l’imbrunire.
Poi, carica di follia, l’intera isola volò, pronta a schiacciare la stirpe
di Zeus.