Superati i campi di granturco, incontro le prime case recintate da
staccionate bianche o blu. L’odore di zuppa, misto a torta di mele, riempie
l’aria, riportandomi ai giorni in cui mia madre metteva in tavola la cena
per la famiglia riunita e riservava a noi bambini le fette più grandi di
dolce. Sono stato via per anni, ma nulla sembra essere cambiato nel regno
del profeta, o il padre, come gli piace farsi chiamare.
Raggiungo l’abitazione e busso. La bambina sull’uscio é una moglie, non una
figlia. Lo testimoniano la cuffia bianca e la gonnella indaco. Il padre le
sceglie sempre più giovani.
La dottrina del profeta impone di accogliere i viandanti e la fanciulla mi
invita a entrare. Mi fa sedere e mi porge un piatto di minestra. Accetto per
non offenderla, anche se da parecchio non ho più bisogno di mangiare.
Il padre, a capotavola, mi fissa con occhi indagatori. Il tempo ha
intorbidato le iridi cerulee senza per questo rendere meno tagliente lo
sguardo. Ma io non sono più il ragazzo di una volta: obbediente e rispettoso
delle regole. Allora, neppure immaginavo che si potesse vivere in modo
diverso. Poi, mi ammalai e mi portarono in città.
In ospedale, conobbi un giovane. Era gentile e per lui provavo sentimenti a
cui faticavo a dare un nome. Il profeta invece li riconobbe subito: quando
tornai alla comunità, disse a tutti che ero impuro e mi punì.
Finito il pasto, slaccio il panciotto. Lo sguardo del padre scende dalla
faccia alla camicia e si ferma sul fianco, dove si allarga la macchia rossa.
All’improvviso, ricorda. Il volto gli si contrae, mentre annaspa in cerca di
aria. Spaventata, la ragazzina grida.
Esco. Ho esaurito il mio compito. Tra poco, il profeta conoscerà l’inferno
di cui ha tanto predicato.