Il becchino, piccolo e sudato con i ciuffi di capelli unti appiccicati alla calvizie, frantuma la lapide corrosa con l’ultimo colpo di martello. Si infila come un topo nel buco e tira fuori la vecchia cassa, mangiata dai vermi e chiazzata di muffa, gettandola a terra. L’unico paese del mondo civile che obbliga chi riutilizza un loculo a assistere alla esumazione. Non usa nemmeno un piede di porco, il mastino. Con quattro calci sfascia il legno marcio pronto a spezzare le ossa e buttarle in una fossa. Un getto fetido esce dal legno. Il cadavere, ben conservato, rimane allo scoperto e il cuore perde un battito. Il cranio è deformato, con la mascella inferiore spalancata e allungata in maniera oscena, sino a metà torace. Le mani ricurve mostrano artigli ossei simili a spine e il collo e la schiena sono ricoperti da squame verdi ancora intatte.
Ci penso un attimo. Uno solo. Con uno scatto spalanco la bocca di un metro e
salto sull’ometto, ingoiandolo per metà. Gli infilo gli artigli nel fegato e
nei reni, si blocca con un sussulto e con un ultimo sforzo me lo tiro tutto
dentro. Un lungo respiro e mi guardo attorno. Nessuno ci ha visto. Mi siedo
a terra, col ventre gonfio, iniziando a scioglierlo con gli acidi interni.
Ne avrò per circa un’oretta buona, tanto vale accendersi una sigaretta.
Quella carogna di mio padre. Mi aveva detto di essere lui il primo.
Invece già il bisnonno era come noi.