Non mi sembrava plausibile che quell’appuntamento potesse peggiorare. Perciò
quando il mio commensale, per consolarmi del servizio scadente, del cibo
schifoso e della sua stupidità, mi disse che sarebbe anche potuta andare
peggio, dovetti proprio rispondergli di no.
Lui aveva riso in modo convulso, travolto dalla mia simpatia. Che faccio,
glielo dico che non scherzavo per niente? Glielo dico che spero sia lui a
scherzare quando cerca di allungare la mano sul tavolo per prendere la mia?
Mi alzai di scatto.
“Devo telefonare.”
“Vai in bagno?”
Mi chinai sulla sua bella faccia, che purtroppo nascondeva uno scemo, e
sillabai:
“Telefonare.”
Girai i tacchi e uscii dalla porta principale. Per un istante valutai la
possibilità di scappare, non prima di avergli rigato la fiancata dell’auto,
invece feci quello che ero andata a fare.
“Pronto?”
La voce di mio cugino suonò rauca.
“Dormivi?”
“No, mangiavo.”
“Chi?”
Lo sentii ruggire e poi imprecare.
“Ti ho detto mille volte di non fare questi discorsi al telefono. Potrebbero
intercettarci.”
“Sei paranoico. Ok, allora diciamo chi ti ha... suggerito la ricetta?”
Intuii che stava sia sospirando che sorridendo.
“Una portinaia.”
“Ah, e com’è?”
“Buona. Un po’ grassa. Il tuo appuntamento?”
“La finisco qui.”
L’agitazione che provocai mi arrivò come una zaffata.
“Dimmi che con la finisco qui intendi che te ne torni a casa e lasci
in pace quel poveretto.”
Mugugnai, facendo un verso sordo con la gola, lo stesso che faceva lui
quando aveva fame. Non poté ignorarlo:
“Piantalo e basta, ok? Vieni da me, ho un po’ di quella donna avanzata. Puoi
mang...”
Non gli lasciai terminare la frase: il bel tipo era uscito a cercarmi.
“Tutto bene?”
Notai le sue braccia tornite tirare la maglietta e intuii la forma delle
cosce sotto i jeans.
Schioccai la lingua.
“Benissimo. Mi accompagni a casa?”
Nata a Pesaro il 13.01 1990 studentessa di Lettere e Filosofia presso l'Università degli studi di Urbino.