John Melville si
svegliò con l’emicrania. Aveva un dolore che partiva dalla fronte e
terminava alla nuca. Strano, la sera prima non aveva toccato nemmeno un
goccio del suo prezioso whisky che custodiva sotto il letto: almeno, era ciò
che si ricordava. Era in una strana posizione, come se non fosse nel proprio
letto, bensì disteso su un cordolo di calcestruzzo. Trasalì lentamente,
sentendosi la gola secca. Era la tipica sensazione che provava ogni volta
che la sera precedente aveva esagerato con l’alcool.
Era come se nella sua mente allignasse qualche brutto male, che da qualche
tempo lo logorava dall’interno. Dischiuse gli occhi corrugando la fronte.
Una forte luce lo colpiva in pieno volto, e dovette portarsi una mano
davanti al viso per resistere. Ma dov’era? La sera prima aveva chiuso le
finestre di camera sua, ne era certo! E allora che cosa c’era che non
andava? Si mise supino, sentendo le ginocchia dolergli, come se da troppo
tempo fosse rimasto nella stessa posizione. Si passò una mano sulla testa
pelata e trasse un lungo respiro guardandosi attorno. La violenta luce,
entrava da una finestra a circa tre metri di fronte a lui, e immediatamente,
si rese conto di non essere nel suo appartamento a Jacksonville.
Ma allora dove si trovava?
Era in una stanza, il pavimento di legno, le pareti malandate presentavano
graffi e parti di poster ancora integri: uno di essi era sembrava essere un
disegno fatto a mano, la faccia di una giovane ragazza che lacrimava sangue.
Infine, una coltre di polvere creava spirali all’interno, rendendo l’aria
quasi irrespirabile. Dal soffitto opaco, l’intonaco si scrostava,
accumulandosi in piccoli mucchietti sul pavimento. John si passò una mano
sulla maglia sudata: indossava gli stessi vestiti del giorno prima, diavolo,
gli sembrava fosse passata un’eternità da... Che cosa aveva fatto il giorno
prima?
Era stato rapito? Da chi, e perché? Era sudato, e i jeans gli si
appiccicavano alle gambe, creandogli un fastidioso prurito all’altezza delle
ginocchia. Fece vibrare le labbra, poi si alzò lentamente, aiutandosi con le
mani contro la parete.
Era confuso. Si avvicinò alla finestra e, sospirando, guardò fuori alla
ricerca di una risposta. Uno spesso strato di nebbia, impediva di vedere in
lontananza, ma la neve che giaceva sul terreno a circa sei metri metri sotto
di lui, bé, quella la si vedeva chiaramente. Anche un’altra cosa riusciva a
vedere: strisce di sangue che partivano vicino ad un albero e continuavano
per alcuni metri sulla sinistra. Ma che razza di posto era? Forse qualche
suo amico gli aveva teso uno scherzo? No, lui di amici non ne aveva, e quei
pochi conoscenti che aveva visto due o tre volte durante i suoi trentacinque
anni, abitavano ad Amityville.
Poi, con la coda degli occhi, vide cosa c’era di fianco a quello che, fino a
pochi minuti prima, era stato il suo letto.
Un cadavere in stato di putrefazione, giaceva sul pavimento.
Le braccia scheletriche, di un colore verdastro, erano legate, mentre il
piede sinistro mancava, reciso all’altezza della caviglia. John si passò una
mano sulla bocca, sentendo il bisogno di rimettere. Il cranio sembrava
spaccato in due, infatti mancava la parte sinistra, e tra il naso e
l’orecchio destro, penzolava un vecchio filo di ragnatela.
Il torace era ricoperto da uno straccio bianco, e con il sangue c’era
scritta una parola: MACABRO.
All’improvviso, il rumore di uno sparo attirò la sua attenzione. Si voltò di
scatto, e solamente in quel momento, notò la porta sulla destra. La maniglia
non c’era, ed era aperta di pochi centimetri. John la spinse lievemente, e
il corridoio che gli comparve davanti, gli sembrò dannatamente lungo.
Dritto, era l’unica direzione nella quale poteva andare, e così fece. Il
pavimento era ricoperto da un lungo tappeto rosso, che ai bordi presentava
dei candelabri dipinti di giallo.
Camminava lentamente, sentendo il peso del suo corpo trasmettersi sulle assi
dure e scricchiolanti. Chi era stato a sparare?
Sulla parete di sinistra, vicino ad un quadro che rappresentava un prato ben
fiorito, c’era l’impronta di una mano insanguinata. John avanzò ansimante,
sentendo il cuore palpitargli in gola. Quando arrivò alla fine del
corridoio, una scala scendeva a sinistra, e sugli scalini c’era ancora del
sangue
- C’è qualcuno?
Nessuna risposta. Appoggiò la mano destra al corrimano, e scese trasalendo.
Di sotto, un salotto pieno di mobili a parete e di divani disposti a ferro
di cavallo, gli si presentò davanti, e guardandosi attorno, vide che il
tavolo principale era apparecchiato, come se qualcuno si stesse preparando a
servire la cena. Lì però non c’era nessuno, a parte lui ed il silenzio.
Poi un altro rumore, sembravano dei passi che provenivano dal porticato
all’esterno.
Aprì la porta d’ingresso ed uscì, sentendo da subito l’arietta fresca
tagliargli la pelle del viso. Nevicava, e quello era piuttosto strano. Ieri,
quando era tornato dal lavoro, la temperatura aveva toccato i venticinque
gradi. Ma in che razza di posto era capitato? E per colpa di chi?
Poi, in lontananza, vide una figura nera che si nascondeva vicino agli
alberi. John sgranò gli occhi: sembrava indossasse una specie di tonaca nera
con cappuccio, ma non nera per niente sicuro.
- Attento! Non so chi o cosa sia, ma ha bisogno di uccidere!
La voce era sbucata dalla sua sinistra, e quando si voltò, John vide un uomo
che giaceva in ginocchio, con una Calibro 22 stretta nelle mani. Era un tipo
alto, sui trentacinque anni, con un cappello di paglia che gi ricadeva sulla
fronte. Indossava una maglia grigia sporca di sangue, e dei jeans neri
strappati all’altezza del ginocchio destro.
- Chi diavolo saresti tu?
L’altro sorrise strabuzzando gli occhi. - Hai paura amico?
John corrugò la fronte, diede nuovamente uno sguardo alla figura che, e poi
tornò a scrutare la faccia aguzza dello sconosciuto.
- Non devi farti vedere da Drukus, è cattivo, e ha bisogno di mangiare.
- Ma chi sei? Una specie di cacciatore di mostri?
- Piacere, Tedd Wymer, ti chiedi come mai sei capitato in questo posto,
vero?
John annuì.
- Questo è il luogo dove finiscono tutte le persone scomparse, quelle che in
molti credono siano morte, oppure uccise da un serial killer, invece no,
sono finite in questo posto.
- Ma dove siamo? Voglio dire, è un paesino?
Tedd sorrise ironico. - Non credo proprio, è un’altra dimensione, e
probabilmente anche a te, nella vita reale, è successo qualcosa.
John inarcò le sopracciglia. - Un’altra dimensione? Ma che cosa diavolo stai
dicendo? Tu sei pazzo!
- Ti sei svegliato nella camera del secondo piano, giusto? E hai anche visto
il tizio scheletrico che ha la scritta MACABRO scritta su uno straccio?
John trasalì annuendo.
- Bene, la stessa cosa è successa a me, non so da quanto tempo sono qui. Il
tizio scheletrico si chiamava Alex Durham, era un autista di autobus,
scomparso alcuni fa mentre tornava a casa.
- E tu come fai a saperlo?
- Aveva la licenza ancora nella tasca dei pantaloni, e poi lavorava nella
mia cittadina, conosco tutti.
- Non riesco a crederti.
Tedd fece qualche passo verso di lui, tenendo gli occhi puntati sulla figura
immobile in lontananza.
- Tra poco Drukus tornerà all’attacco, la sua ultima è stata una ragazza di
diciotto anni, ieri pomeriggio.
Quindi indicò le macchie di sangue, che partivano dal solitario albero al
centro del giardino ricoperto dalla neve.
- Guarda -, disse poi Tedd puntando un dito verso l’alto.
Seguendolo, John vide la testa mozzata di una ragazza, infilzata
sull’antenna del tetto. I Lunghi capelli neri svolazzavano, e gli occhi
sembravano due grumi di sangue pronti a scoppiare da un momento all’altro.
- Mio Dio! Presto dobbiamo andarcene.
Tedd scosse la testa. - Ho provato a scappare, ma sembra che il bosco sia
interminabile, e la neve sembra diventare più fitta una volta che ti inoltri
nel bosco.
John tremò.
- Come facciamo ad andarcene da questo dannato posto?
- Bella domanda.
Poi si udì un tremendo latrato, e la figura con addosso la lunga tonaca nera
balzò addosso a John. Lui cadde a terra, sentendo la nuca sprofondargli
nella neve. Urlò cercando di liberarsi da quella presa sovraumana. Inutile,
e poi quando vide la faccia nascosta dal cappuccio, si sentì morire.
I denti aguzzi, la faccia piena di rughe, e gli occhi bianchi con dei rivoli
simmetrici di sangue che gli arrivavano fino al mento, furono le ultime cose
che vide. In seguito, senti sangue sgorgargli dal petto, e la voce di Tedd
Wymer urlare: - Forse quella è l’unica strada per tornare a casa, addio John.
Jacksonville.
La polizia aveva perlustrato ogni singola camera, ma dell’uomo scomparso non
c’era nessuna traccia. Al secondo piano, nell’appartamento G54, i poliziotti
cercavano disperatamente di darsi una spiegazione, o per lo meno dare una
risposta alla donna che in quel momento stava con la schiena
appoggiata contro alla parete.
- Quando è stata l’ultima volta che ha visto il signor Melville?
La donna, Anita Roberts, trasse un lungo respiro. - Il signor Melville non
aveva molti amici, ieri sera mi aveva invitato a cena nel suo appartamento.
- Continui -, disse l’agente, - la sto ascoltando.
- Bene, è successo che, mentre aspettavo in soggiorno, lui è andato in
bagno, e da allora non l’ho più visto.
- Vuol dire che è entrato in bagno e non è più uscito?
La signora Roberts annuì alzando le spalle.
Il bagno era stato perlustrato a fondo, e John Melville di sicuro non era
potuto scappare da una finestra, poiché non c’era nessuna apertura.
- Come è possibile che un uomo scompaia così all’improvviso?
L’agente corrugò la fronte. - Tutto è possibile signora, personalmente credo
nel paranormale.
- Mi scusi, posso sapere il suo nome agente?
- Certo -, disse togliendosi il cappello di paglia. - Mi chiamo Tedd Wymer,
mi chiami se il signor Melville dovesse tornare.