Mancavano una ventina di pagine alla fine di The Dome di King e
cominciai a pensare che se questo libro fosse finito come The Cell ci
avrei davvero, ma davvero, defecato dentro a sfregio. Invece no: posai il
libro e mi girai di lato, sul letto. Salvato in corner, zio King.
Le 16,12 segnate dal cellulare. Avrei dormito, seppur stranamente
controvoglia, fino a domani o fino al weekend, meglio fino a fine Agosto.
Avrei buttato alle ortiche la corsa pianificata con Giò: avevamo cominciato
di nuovo ieri, almeno
- oeee! - in lontananza
io avevo ricominciato solo ieri. Vabbè, ma c'era tempo per farsi venire la
voglia di fare jogging. O a farsela passare.
Iniziavano a mescolarsi pensieri e sogno
- t'aggiu ritto sta llà - in lontananza
col ronzio del pc acceso che faceva da background sonoro. Provai a non
dimenticarmi che era acceso per
rumore di stoviglia in frantumi, in lontananza
... restai immobile per un po'. Quella botta mi fece trasalire e m'incazzai.
Erano rumori troppo lontani per poter pigliarne a maleparole gli autori.
Comunque fastidiosi, perché tutto il vicinato era in silenzio e pure uno
spillo caduto a Marano avrebbe squassato il terreno.
In tanti erano partiti per le ferie, quasi tutti quelli che restavano
sonnecchiavano. Alcuni di questi, evidentemente, no.
Quando mi arrabbio è difficile che riprenda sonno, questo è ciò che pensai
mentre mi ero nuovamente assopito. Ah, sì: prima pensavo che il computer mi
attendeva vorace, Writer a tutto schermo e il cursore febbrilmente
lampeggiante in attesa di qualcosa da scrivere.
Sì, sì, dopo, dopo. Sapevo di avere tutto il tempo. Sapevo pure che chi non
ha un cazzo da fare alla fine non fa un
AAARGH!, vicino
cazzo! Caddi dal letto. Bestemmiando a bocca piena mi tirai alla vita un
pantaloncino e scattai come un indemoniato fuori casa, salendo per le scale
facendo tre scalini alla volta per affacciarmi al terrazzo e volgarmente
spiegare a quella gente che le loro madri erano davvero facili da abbordare,
e con pochi spiccioli.
Spalancai la porta che mi portava fuori con una fiancata così forte che il
metallo sulla pelle nuda fece attrito e mi tagliai senza accorgermene,
inizialmente.
AARGH!, vicinissimo
Sobbalzai all'indietro, caddi.
In piedi una figura nera come la notte: quattro "gambe?", una più corta,
ricche di peli intrecciati come corcoro; un sedere spropositato e tondo,
setoloso; due - credo - braccia piegate all'indietro, tese, con miriadi di
dita fini e appuntite; ciò che doveva essere la testa spalancata come
un'unica, enorme bocca, rilasciava quel tuono rabbioso. Un po' disperato,
calcolai poi.
Strusciai un piede sul terrazzo polveroso per piegarlo e rimettermi in piedi
con uno slancio, ma lo rilasciai quando constatai che feci girare di scatto
la testa che poco prima urlava. La bocca come quella di una dionea,
verticale, i denti di fuori stretti a pugno. Solo gli occhi, due profondi
occhi costellati da migliaia di ommatidi, erano bianchi: una nevicata vista
attraverso una zanzariera.
La sua bocca si spalancò di nuovo a destra e sinistra e mi gettò quell'urlo
agghiacciante addosso. Prontamente mi coprii il volto con le braccia e mi
piegai le gambe sull'addome.
Poi nulla.
Attesi.
Sentivo quella cosa ansimare, singhiozzare debole ogni tanto.
Allontanai piano le braccia e mi ritrovai quella retina che avvolge un
piumaggio candido, i suoi occhi, nei miei. Erano spaventati. Chissà se si
accorse che avevo più paura io. Diventarono infatti supplichevoli.
Per un tempo incalcolabile me ne stetti a guardare quegli occhi che mi
chiedevano scusa per avermi fatto cascare col culo a terra, che mi
chiedevano aiuto, credo. Osservai con attenzione il petto villoso e a stecco
che si allargava di lato e si sgonfiava in dentro ritmicamente come un cuore
secco e scuro. Le dita a dozzine frullavano come vermi sulle appendici
immobili e le gambe, non tutte, scalciavano come le zampe di un puledro
rimasto incastrato... l'unica gamba immobile era rimasta bloccata tra i cavi
dell'antenna e dei blocchi di cemento. Così come me ne accorsi, l'essere
fremette e le fauci si scontravano ticchettando come in un macabro applauso
di minuscole manine di ferro. Diventò tutt'occhi. Occhi bianchi,
completamente puri. Sembrava più sollevato.
Mi ci volle un po' per rendermi conto, di trovare la forza e il coraggio, ma
alla fine mi avvicinai. A piccoli e tremolanti passi, con quegli occhi
distesi in una specie di sorriso arcaico che non mi mollavano un istante, ma
ci arrivai.
Gli chiesi, in un sospiro impercettibile - Sei rimasto incastrato?.
"Rimasto", come se sapessi che fosse stato un maschio. Non fece altro che
guardarmi e lasciare frullare i serpentelli che aveva come falangi.
- Are you... - poi mi resi conto che non mi ricordavo come si dicesse
"incastrato" in inglese, e mi resi conto che stavo cercando di parlare con
quella cosa che non avrebbe capito nulla di umano, nè in inglese, italiano o
napoletano. L'idea di parlare in dialetto con quello/a lì mi strappò un
fulmineo sorriso. Poi mi abbassai titubante e gli afferrai la zampa ispida.
Esso saltò e subito tremò, mi trasmise un senso di disagio, forzatamente
fiducioso. Pensai che non era l'unica persona (entità, per meglio dire) a
sentirsi così. Come se avesse recepito il messaggio, si calmò e mi lasciò
fare.
Tirai via una manciata di piccoli massi pesanti, gli srotolai il filo che
gli aveva avviluppato la zampa. Si creò lo spazio atto a fargli sfilare via
la zampa con una rapidità che mi fece ricadere a terra. Quasi scappò via,
poi rallentò e si voltò verso di me. Ancora quegli occhi, ancora spaventati.
Per me.
L'essere mi osservava pensieroso il fianco destro, notai che mi formicolava
e con la coda dell'occhio vidi che era sozzo di sangue. Il mio. Col quale
avevo disegnato a terra una sgommata vinaccia.
Premetti leggermente il taglio che m'ero creato sbattendo nella porta per
aprirla, e sgorgò una secchiata di sangue. Mi sentii d'improvviso debole. Mi
si gelò la colonna vertebrale, soprattutto dopo che quell'essere m'era
saltato addosso, di scatto.
La sua testa mi era così vicina che mi persi in quella graticola di
occhietti da insetto. Non potevo fare nulla, le sue dita molli e viscide e
avvinghianti e salde mi tennero bloccato al terreno. Due zampe mi premevano
le gambe a terra.
Fine.
No.
Sentii uno scroscio, la cosa stava raschiandosi la gola, sonoramente. Poi mi
sputò un grumo biancastro sulla pancia. Dei serpentelli dalle sue mani si
allungarono verso di me, mi accarezzarono il fianco ferito spalmando il
muco. Pareva una ragnatela intrecciata su se stessa, una pallottola di tela.
Mi si gelò tutto. Fianco, ventre, torso, fino ai piedi e alla testa.
Avevo la sensazione di quando si succhia una granita e ci si congestionano
le meningi. Ci pensavo perdendomi negli occhi a rete di quell'animale
strano, sotto le dita sentivo la ferita richiudersi lentamente,
un soffio, sulla faccia. Un ringraziamento...
lentamente.
Quel soggetto mai visto balzò al cielo
- AAARGH!, dall'alto
io mi sentivo sempre meglio, ebbi la forza di alzarmi e
- AAARGH!, in lontananza
di guardare il cielo. Ma lui, o lei, insomma quell'essere, non c'era
più.
Ridiscesi in casa, grattandomi dove doveva esserci una cicatrice, come a
farci venir fuori un segno, una rimanenza. Niente, solo la pelle di sempre.
Il pensiero volò a mio padre che mi raccontava un segreto del suo mestiere
da giovane: quando ci si taglia col rasoio, non c'è niente di meglio di una
ragnatela. Va spalmata così come viene presa dal soffitto sulla ferita. Devi
vedere come funziona veloce, diceva.
Mi sedetti al pc, e cominciai a scrivere, meccanicamente.
La signora affianco, la mia vicina di casa, gridò dalla finestra - Ma che è
stato, Antò?
- Niente, signò - le risposi, allo stesso volume - i soliti sciemi - e poco
dopo conclusi ciò che stavo scrivendo mettendoci come titolo Occhi
bianchi.
Giò mi trovò fuori casa sua con un paio di minuti di anticipo, in tenuta da
corsa.
- Azz, pensavo che non venissi - mi schernì lui - pò cu chella faccia!
- 'e visto? - cercai di abbozzare io - non ho dormito per non farti andare a
correre da solo.
E nel silenzio, iniziammo a fare riscaldamento.