E' troppo ciucco per restare in piedi. Seba traballa sugli scogli, resta
in boxer, scende piano.
Si tuffa - Vanni è già avanti.
Il mare è freddo, febbraio non perdona e la birra non scalda a sufficienza.
La luna rischiara la meta, rapido Seba si sbraccia per raggiungerla. Ha
ghiaccioli al posto delle gambe, non sente più i piedi.
Cinque minuti, non ci vuole molto, ma è senza fiato e trema, trema che gli
sembra di rompersi.
Vanni riemerge, Seba subito dietro.
«È l’ultima volta, questa».
Vanni saltella e sorride. «L’ultima volta che bevi?»
«Ah-ah».
Fradicio, jeans e petto nudo, Vanni congela il freddo, lo sbriciola. «Ti è
mai venuta voglia di provarci?»
Seba non risponde, ha così freddo che anche la sbronza si è ghiacciata.
«Be’, dovresti» insiste Vanni. «Rinasci, davvero. È... tutto».
«È già difficile fare la mia parte».
Vanni lo fissa, un sopracciglio alzato. «Devo ricordarti com’è iniziata?»
«Ricordo a cosa mi costringi da allora».
«Saremo pur fratelli per qualcosa, no?»
Carponi, la testa bassa, Seba si vomita sui capelli lunghi.
Vanni gli consegna un coltellino svizzero. «Non vomitare su questo, eh».
«Fottiti».
«Dài, sono pronto, quando vuoi».
L’albero è una carcassa di legno che spunta da un cespuglio rinsecchito.
L’isolotto che lo circonda è una duna di sabbia e sassi. Accanto al tronco,
Vanni inspira con forza, spalanca le braccia.
Il colpo è preciso, feroce.
Una sfida idiota, il mare d’inverno. Gli scogli, il freddo, i tuffi.
Una spinta.
E la testa che cozza, si rompe. Il sangue.
Sbalzato a dieci anni prima, Seba rievoca le grida, la fatica, Vanni che
affoga, e l’isolotto che appare, quasi un miracolo.
Su tutto, la colpa, la colpa che lo divora mentre Vanni gli muore tra le
braccia.
Spezzato dagli spasmi, gli occhi rivoltati all’indietro, Vanni tossisce,
sputa la vita. La lama è penetrata appena sopra il capezzolo sinistro, il
sangue sgorga a fiotti, nero.
L’agonia dura qualche secondo, poi, con sollievo, Seba osserva le radici
dell’albero. Si scostano mentre sabbia e terra sembrano gonfiarsi. Ne emerge
una gobba glabra, i pochi peli dritti come chiodi. Le unghie si fanno strada
scavando piano, affiorando si aggrappano alla sabbia. Le braccia cercano di
issarsi fuori, ma le grosse catene, piantate nelle spalle, trattengono la
creatura. Imprigionata, come sempre, scruta obliqua - la testa incassata nel
petto, i quattro occhi sono spilli rossi senza palpebre.
Poi, ricomincia a sotterrarsi, lo sferragliare delle catene suggella la sua
ritirata.
«Aspetta!» sibila Seba, confuso, distrutto. «Cosa fai? Vuoi che
muoia?»
La creatura torna a guardarlo, storce il grugno, infastidita. «È già morto
tante volte».
«Perché ha mangiato le tue scaglie!» Indica le cicatrici sulla gobba
sporgente. «Ma... ritorna! Funziona così, cazzo!»
«Niente più scaglie, per ora» gorgoglia l’essere. «Lasciate che ricrescano,
ingordi».
«Ne avevi, l’anno scorso, le hai sempre avute, ogni anno...»
Mentre svanisce sotto la sabbia, il verso gutturale riecheggia: «Credete di
essere gli unici a saziarvi di me?»