Ti svegli, ti alzi per andare a pisciare e lei è già lì che ti guarda.
Resti coi gomiti alle ginocchia, le mani penzoloni e la schiena piegata in
una gobba che non hai mai avuto. Fissi la sagoma disegnata sulle piastrelle:
lei ricambia, anche se gli occhi – nero nel nero – li puoi solo immaginare.
Ha i contorni dei tuoi capelli arruffati, lo stesso collo sottile. Quando
fuori un motore spezza il silenzio, lei si volta: anche il naso è il tuo.
Sì, non hai mai avuto un profilo aggraziato, ma ora la cosa non ti
rattrista.
Ti sposti per afferrare la carta igienica, ti raddrizzi per asciugarti, poi
sospiri.
Lei non si è mai mossa.
Hai già provato con lampadine più potenti o spalancando la finestra, a
invitare il freddo e i bagliori obliqui dell’alba.
Non serve, ti senti balbettare, ma poi ci ripensi.
Adesso almeno sai che con la luce non ha niente da spartire.
Quando ti stacchi dalla tavoletta ti è già passata la voglia di vestirti,
fare colazione, andare al lavoro. Fai due passi verso lo specchio,
barcollando perché mutande e pigiama lascino in pace le caviglie.
Mentre ti giri per tirare l’acqua la tua vera ombra è sul muro, timida. La
linea delle spalle sfiora lo sciacquone. Ubbidiente, una mano si solleva con
la tua. Due dita si congiungono sul bottone.
Ti chiedi come hai potuto, all’inizio, immaginare che fossero la stessa
cosa. Come hai potuto incaponirti al punto di cercare una soluzione logica.
Pensi ai libri di fisica, comprati e buttati, e ti senti stupida. Stupida e
impotente.
Così ti lavi la faccia, osservi il viso: occhiaie e guance scavate sembrano
il vessillo di un brutto male. Eppure le analisi ti descrivono sana,
dovresti solo mangiare di più... dormire meglio... La malattia invece è dietro
di te. La senti che tira l’acqua una seconda volta e quando ti giri i tuoi
indumenti sono già per metà dentro lo scarico. Scatti, il ginocchio cozza
contro la porcellana, ma almeno riesci a salvare il pigiama.
Affondi la faccia nella tela fradicia e cominci a singhiozzare.
Ti ricordi ancora benissimo quando è arrivata.
Hai vissuto e rivissuto l’istante in cui aprivi la porta. Era lì, informe e
nera sul pavimento dell’atrio. Le è bastato uno scatto per attaccarsi ai
tuoi piedi e diventare ciò che è adesso, mentre oscura il lavandino e chiude
il rubinetto. Avrai bisogno delle pinze, per riaprirlo.
Ti sei chiesta mille volte perché casa tua. Te lo continui a chiedere mentre
ti fai coraggio e vai in cucina. Se sei fortunata riuscirai a ingoiare una
manciata di cereali e un sorso di latte, prima che lei rovesci la scatola e
mandi in frantumi la scodella. Di caffè non se ne parla: bene che vada,
finiresti per scottarti le mani. E in ogni caso non hai più la forza per
queste battaglie.
L’ultima l’hai persa con il fidanzato che non hai più, quando ancora potevi
piacere a qualcuno. Mentre gli spiegavi della sagoma che in quel momento si
nascondeva dentro la tua ombra, eri la prima a dubitare delle tue parole.
Lei, intanto, dietro di te, stava senz’altro ridendo.