Infine giunse l’aurora, il cui debole chiarore consentì ai miei occhi di
smettere di frugare invano nell’oscurità della camera. Quando la sottile
striscia di luce penetrante dalle feritoie della persiana iniziò a disegnare
i bordi degli oggetti e dei mobili, ed assunse abbastanza consistenza da
permettermi di vedere, mi alzai dal letto scostando le lenzuola madide del
mio sudore.
Ero arrivato nella locanda la sera prima. Suonai l’apposito campanello per
richiamare l’attenzione del portiere, ma non rispose nessuno. Nell’attesa mi
sedetti sul divano del salotto, ed in poco tempo mi addormentai.
Al risveglio mi ritrovai in questa camera, spogliato dei miei vestiti,
disteso sul letto sotto queste coperte che, a giudicare dalla polvere, erano
mesi che non venivano usate.
L’assenza di corrente elettrica, la porta chiusa a chiave, le finestre
bloccate, il buio assoluto, nessun segno di vita dalle stanze adiacenti e le
mie urla inascoltate, provocarono in me una regressione mentale che mi
spinse a rifugiarmi sotto le coperte, nel perpetuarsi di un arcano gesto
puerile, evidente segnale del mio convincimento della presenza di alieni ed
oscuri voleri.
Iniziarono i rumori. Prima impercettibili, poi sempre più evidenti. Fruscii,
sordi colpi alle pareti, un lento salmodiare di cori lontani, urla che
sembravano provenire dalle cantine, infine il pianto, quello strenuo
singhiozzare che a fasi alterne si avvicinava per poi allontanarsi di nuovo.
Provai a pregare, a supplicare di lasciarmi stare, ma in breve mi resi conto
che nessuno mi stava ascoltando.
I rumori cessarono non appena la luce si insinuò nella stanza. Ciò che
intravidi non mi portò alcun conforto, aumentando invece a dismisura la
portata del mio terrore.
Ebbi chiara visione del significato delle oscure parole che avevo letto la
sera precedente giù nella hall, prima di addormentarmi sul divano. Su una
parete vi era una quadro che rappresentava la locanda in due diversi momenti
del giorno, il tramonto e l’alba. Alla base del dipinto vi era scritto “Ad
un tragico tramonto sempre segue un’alba funesta”.
Le parole non bastano per descrivere l’immonda progenie di esseri che
popolavano la mia stanza, rannicchiati in fondo al letto, intenti ad
osservarmi con attenzione. Credo che non appartenessero né a questo mondo né
a questo tempo.
Lentamente cominciarono ad avvicinarsi. Ripresero i rumori, sempre più forti
ed opprimenti. L’indicibile paura che provavo alla loro visione attenuava la
comprensione di quegli eventi, e di nuovo preda del terrore compii lo stesso
ingenuo gesto della notte appena trascorsa, rifugiandomi sotto le coperte.
Fu allora che riconobbi in tutti quegli esseri gli stessi mostri che
popolavano i miei sonni di bambino e che ora abitavano in quella specie di
incubo ad occhi aperti.
L’ultima cosa che ricordo, prima di divenire banchetto di quel putridume
subumano, è una musica strana, triste ed allegra contemporaneamente; la
musica di un circo.