Il bambino si rigirò nel letto: era Halloween e lui, rincasato da poco, era
troppo eccitato per dormire.
Accucciato sotto le coperte, ricalcò con il dito i segni sbiaditi del
trucco. Sarebbe stato uno scheletro per tutta la notte, anche se la mamma
gli aveva sfregato a lungo la pelle per cancellare le orbite che papà gli
aveva disegnato attorno agli occhi, la mandibola dalle guance e le falangi
dalle mani.
Fuori tirava vento e ombre minacciose entravano dalla finestra della sua
camera.
“Gli scheletri non hanno paura,” si disse. “Sono già morti!”
D’improvviso un fiato caldo gli sfiorò la nuca.
Lui era già lì.
Il mostro lo sollevò in aria come un papà che giocava a far volare il
figlio, gettandoselo sulla spalla come un sacco.
“Sono tutt’ossa!” miagolò il bambino, mettendo la mano dipinta dove
supponeva gli cadesse lo sguardo.
“La carne attaccata alle ossa è più saporita,” venne deriso.
Non protestò mentre il mostro scavalcava la finestra e lo portava via.
“Ti spezzo la schiena con una mano, se ci provi,” era stato avvertito.
Serrò gli occhi e tornò a spalancarli per il dolore soltanto quando venne
lasciato cadere a terra.
Tutt’intorno a lui, solo sagome irregolari di alberi spogli.
Durante il tragitto aveva fatto pipì nel pigiama e aveva la stoffa ancora
calda incollata alla pancia.
Il mostro gli passeggiava attorno, come in attesa di qualcosa.
“Mi guardi, moccioso?” lo aggredì d’un tratto. “Fai bene. Un giorno ti
sveglierai e guardandoti allo specchio, vedrai me. Sporco, lacero, denti
rossi di sangue.”
Sputò a terra, liberando con un calcio qualcosa di bianco dall’abbraccio
dell’erba.
Era una gabbia d’ossa, il relitto di una vita finita.
“La cassa toracica di un cervo,” gli spiegò. “Qui dentro ci batteva un
cuore, una volta. Era delizioso.”
Il bambino iniziò a singhiozzare senza freni. Piangeva per il sollievo: non
erano i resti di un uomo, come aveva temuto.
Una luce soffusa schiarì l’oscurità della notte e con essa comparvero decine
di ragnatele aggrappate all’erba, ai rami, alle ossa.
Il bambino si passò convulsamente le mani sul corpo, convinto che fossero
cresciute anche addosso a lui; poi uno schiocco violento lo paralizzò.
Il suono si ripeté e il mostro cadde sulle ginocchia, gemendo.
“La luna... quella puttana... mi amputa pezzo per pezzo. È la mia dea, il mio
macellaio,” rantolò, asciugandosi le labbra ferite dai suoi stessi denti
contro la spalla. “Alla prossima luna piena, anche le tue ossa faranno
rumore.”
Furono le ultime parole che uscirono dalla sua bocca, a cui seguirono urla,
ululati, denti.
Quando fu tutto finito, ne colò fuori il sangue del bambino, un sorso di
quel fiotto tanto copioso che il lupo mannaro non era riuscito a inghiottire
del tutto.
“Inizia la musica,” rabbrividì il bambino diversi anni dopo.
Era la notte di Halloween - come quella notte - ma non sarebbe venuto
nessuno a dipingergli il viso.
Si abbracciò il torace, nudo e magro come un chiodo, tremando forte.
Aspettava di indossare il suo costume da mostro: la luce della luna piena.