«Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina»,
cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.
[...]
Dante, Inf. XXI – vv. 118-120
Leonardo
intreccia i capelli.
Li tira con i polpastrelli e muove velocemente i polsi. Ne afferra tre,
quattro. Mai di più.
È diventato così abile che riconosce quelli tinti al tatto.
Preferisce quelli naturali, meno rovinati e più resistenti.
Dopo aver terminato un’altra piccola treccia guarda la chioma che gli resta,
poggiata sulla testa calva di un manichino. Lo ha comprato in un negozio per
parrucchiere.
La commessa voleva vendergli a tutti i costi delle parrucche. Se la ricorda
ancora: pelle bianchissima, lentiggini rossicce che passeggiavano sul naso e
sulle guance.
«No, grazie. Ne ho già» aveva risposto gentilmente.
«E tu sarai la mia Calcabrina.»
«Ancora Dante?»
«Ancora Dante.» conferma Leonardo, bevendo un sorso dal suo mojito.
«Non potrei essere la tua Beatrice?» risponde la ragazza, alzando ancora la
voce, per coprire la musica che gonfia il locale.
«Oh, ma Calcabrina vale molto di più!»
«Torniamo a fumare allora?»
È da tutta la sera che vanno avanti così.
Escono sul terrazzo del locale, le orecchie riempite con l’eco dei bassi.
Lei ride per niente e si appoggia alla balaustra. Ha bevuto troppo, ma si
sta divertendo.
Lui accende le sigarette, e tra un tiro e l’altro recita.
«Inferno, ventunesimo canto» comincia, mettendosi una mano sul cuore.
Ne avrà ancora per un’ora, forse due, e decide che può
prendersi una pausa.
Esce dalla mansarda chiudendosi piano la porta alle spalle.
Il soffitto è ricoperto di fili di nylon, tesi da una parete all’altra,
legati a dei chiodi.
Le sottili trecce di capelli pendono vicine, svolazzando a ogni capriccio di
vento, ma abbastanza distanti da non annodarsi.
Leonardo scende le scale con lentezza.
È nudo e il legno gli dà una sensazione piacevole, sulle piante dei piedi.
Si prende una birra dal frigo e prosegue verso la cantina.
La stanza è ampia quanto l’intera casa. Al centro c’è un tavolo di ferro, di
quelli che si usano nei macelli, con le feritoie per scolare i liquidi.
C’è ancora odore di sangue e a lui dà un po’ fastidio.
Afferra da un armadio una bomboletta di deodorante e comincia a spruzzare.
«Mi accompagni tu, vero?» dice la ragazza, mentre
barcolla nel parcheggio del locale.
«A casa mia o a casa tua?»
La risposta è un bacio, scena già scritta per un film che ha nel sesso il
suo finale.
In macchina viaggiano con le mani fra le gambe dell’altro.
Leonardo comincia a spogliarla prima ancora di entrare in casa.
Anche il soffitto della cantina è ricoperto di fili di
nylon.
A questi però sono appese piccole losanghe di pelle conciata ed essiccata.
C’è n’è di scure e di più chiare, divise per tonalità. Alcune sono
bianchissime, altre quasi nere.
Leonardo cammina, eccitato, la voce un tremito dentro ai respiri. Sussurra
rivolgendosi a quei brandelli come se li stesse salutando: «Ciriatto...
Draghignazzo... Libicocco... Barbariccia... Cagnazzo...»
Si ferma davanti al tavolo, dove un corpo scuoiato ha già cominciato a
puzzare.
«E Calcabrina» dice con un sorriso.
«Me li tenga tutti» ordina alla commessa della sartoria,
che lo guarda perplessa.
«Tutto il set?»
«Sì,» conferma Leonardo «e anche quelli ricurvi, mi raccomando.»
L’altra non chiede più e riavvolge il panno che contiene gli aghi.
Leonardo lascia scorrere l’acqua gelata e osserva il
sangue, lavato via dai bordi della prima losanga.
Ne ha scelta una scura, grande quanto un post-it.
Non è stato così difficile come pensava, anche se ha dovuto cucire con una
mano sola.
Osserva la sua nudità in un grande specchio ovale, compiaciuto.
Il rombo scuro spicca sulla pelle chiara del suo avambraccio.
I bordi stanno già ricominciando a sanguinare.
Lui ruota il braccio, per vedere meglio. Un ghigno malato gli deforma il
viso.
Ingoia altre anfetamine, stacca una nuova treccia di capelli dal soffitto e
la infila nell’ago.
Gli basteranno tre, forse due giorni soltanto, e sarà vestito come il Re
dell’Inferno.
Appoggia una losanga sull’avambraccio, stavolta più chiara, e ricomincia a
cucire.