... manca l’aria, sento il peso dell’anidride
carbonica che mi sfonda il petto.
Il terrore imbottito, funi d’acciaio m’immobilizzano. E poi l’oscurità,
matassa impenetrabile distorta dal suono affannato dei miei respiri
convulsi. Sempre più rapidi, come la raffica singhiozzante di una
mitragliatrice asmatica.
Provo a muovere la testa, a guadagnare qualche millimetro, ma sono del tutto
immobile, rigido come un blocco di carne ghiacciata.
Avverto l’odore di terra bagnata. Percepisco un leggero spiffero d’aria che
non riesco a respirare.
Per me solo esalazioni venefiche di legno marcio.
E il buio, sempre e solo buio. Tiranno inflessibile che non ammette
opposizione di luce.
Prigioniero del mio corpo, del terrore, dell’orrore tra tutti gli orrori,
prigioniero...
... è questo il mio incubo di sempre. Il delirio che da
anni mi tormenta.
Sognato tre, quattro, mille volte a notte.
Un lungo ciclo infinito. Un’assoluta ripetizione dell’eterno uguale.
Ogni notte, da quando ho memoria. La prima volta avevo sei anni e ricordo
che crollai giù dal letto vittima di una crisi isterica senza precedenti
nella storia del mondo.
Mia madre riuscì a calmarmi solo molte ore dopo, quando il sole aveva
cominciato a fare capolino dalle colline intorno a casa.
Non andai a scuola per una settimana, tanto era spaventato. Le prime notti
furono le peggiori, quando, vivendo quell’assenza onirica di luce e
movimento, credevo che si trattasse della più cruda realtà e che non ci
fosse via di scampo. Che fossi imprigionato per l’eternità.
Poi, giorno dopo giorno, divenne chiaro che era solo un brutto sogno e che,
anche se mi svegliavo con il cuore prossimo all’esplosione, non c’era nessun
pericolo. Che ero al sicuro in camera mia. Che i miei genitori erano a pochi
metri da me, pronti a proteggermi da ogni minaccia che avesse aggredito la
mia vita.
Dopo una quindicina di giorni, il sonno non era più fonte di terrore e ben
presto il sogno divenne qualcosa che cominciai ad accettare, come una
naturale parte del mio corpo. Dopo un paio di mesi, non ci facevo più caso:
sapevo ciò che mi aspettava, ma sapevo anche che sarebbe finito al momento
del risveglio.
Una solida certezza costruitasi notte dopo notte.
Una certezza che non avrei mai messo in discussione, perché si trattava di
un sogno e niente più...
... una fitta lacerante al petto e al fianco. Sento
odore di sangue ed escrementi. Un puzzo orribile che mi manda in subbuglio
lo stomaco... sto per vomitare... nero, buio impenetrabile. Manca l’aria,
sento il peso dell’anidride carbonica che mi sfonda il petto.
Il terrore imbottito, funi d’acciaio m’immobilizzano. E poi l’oscurità,
matassa impenetrabile distorta dal suono affannato dei miei respiri
convulsi. Sempre più rapidi, come la raffica singhiozzante di una
mitragliatrice asmatica.
Provo a muovere la testa, a guadagnare qualche millimetro, ma sono del tutto
immobile, rigido come un blocco di carne ghiacciata.
Avverto l’odore di terra bagnata. Percepisco un leggero spiffero d’aria che
non riesco a respirare.
Per me solo esalazioni venefiche di legno marcio.
E il buio, sempre e solo buio. Tiranno inflessibile che non ammette
opposizione di luce.
Prigioniero del mio corpo, del terrore, dell’orrore tra tutti gli orrori, io
qui, prigioniero.
Avverto la consistenza del sogno, di tutti i suoi risvolti più terrificanti.
Cerco di aprire gli occhi, di emergere dall’incubo.
Di svegliarmi accanto a mia moglie che accoglie il mio risveglio con un
sorriso caldo e appagante.
Irrompe un elemento nuovo, comparso per la prima volta dopo trent’anni
d’impeccabile ripetitività: l’inconfondibile tamburellare della pioggia su
una superficie di legno. È un suono lontano, sembra venire da un’altra
dimensione, tuttavia lo sento distintamente. Provo a muovermi, ma un dolore
acuminato al petto impedisce anche il più lieve dei movimenti. Un dolore
vero, una sofferenza incendiaria che poco si addice alla fluida incorporeità
dei sogni.
Emerge un altro suono.
Devastante, vicino, letale. Un boato che avvolge il mio mondo oscuro. Lo
riconosco subito, senza la confortante illusione di potermi sbagliare: terra
gettata sopra a un coperchio di legno. Terra a pochi centimetri dal mio
viso.
Un altro boato, un altro ancora, poi inizia ad attutirsi, sempre più
lontano. L’odore di terra bagnata mi ubriaca e mi stordisce.
Il lamento di una donna mi accarezza il viso come una scudisciata di spine.
Una donna disperata, distrutta dal dolore e poi ancora terra, tantissima
terra sopra di me. Sopra la mia prigione di legno imbottito.
Capisco, è l’evoluzione dell’incubo, un inevitabile progresso maturato
nell’arco di tre decenni.
È il sogno di sempre. Accanto a me so esserci il corpo di mia moglie. Caldo,
sicuro, pieno d’amore. Un rifugio misericordioso lontano da tutte le paure
che hanno segnato la mia vita.
Cerco di tornare alla luce.
Mi sforzo. Uso tutta la tenacia possibile per far breccia nel velo di sonno
che stringe il mio corpo.
Mi sforzo...
... mi sforzo...
... non riesco a svegliarmi e sopra di me, il suono ovattato di una montagna di terra che continua a cadere.