Carlotta comincia a
vomitare, davanti alla bancarella della frutta esotica.
Poggia le mani su una cesta d’ananas caramellato, tagliato a rondelle.
Inarca le spalle, rantola, i codini squassati dalle convulsioni.
Giorgia, in fianco a lei, con gli ultimi graffi di zucchero filato sulle
guance, non fa nemmeno in tempo a spostarsi.
L’amica si volta: una tumefazione grande quanto una mela risale il collo,
lenta. Appena sotto il mento, la pelle non regge e si spacca, liberando una
massa grumosa e biancastra, lucida di saliva. Gli occhi della bambina
scavalcano le orbite, come se volessero buttarsi. L’impasto scivola sulla
pelle: un’entità serpentiforme, ruvida di cibo masticato, striscia via dalla
carne.
Armida dosa la farina, mischiata a polvere d’argento,
la scioglie in acqua e lacrime. Ha grattato anche le unghie, che amalgama al
tuorlo d’uovo.
Per graffiare, pensa, ne basterà un pizzico.
Emanuela si accascia davanti a un imbonitore di
stoviglie.
Lo osservava tagliare una lattina con un coltello, e un crampo le ha scosso
il ventre.
Pochi istanti e il grumo si allontana, lasciando una scia di feci.
Lo zucchero è fondamentale, le è stato detto.
Per ottenere il suo, servono mesi: ha cristalli come formiche scintillanti,
nasce da erbe ormai introvabili.
La dolcezza riunisce, pensa, restituisce il frutto al ventre.
Gabriele ne ha mangiata mezza: bocconi troppo deboli per
scavare le viscere.
Luca invece ne ha mangiate due e lo squarcio nella pancia è largo quanto un
pugno.
Decine di frittelle, masticate o quasi digerite, devastano gli stomaci e
lacerano la pelle.
Convergono strisciando verso un unico punto.
Armida, dietro la sua bancarella di frittelle,
aggiunge il latte all’impasto e pronuncia le parole udite in sogno.
Lacrime di gioia, rigano un volto sfigurato dalla pazzia.
Non ne ha mai potuti avere, ma adesso, spera, i bambini verranno da lei.