Ti piace uno sguardo
d’agonia, perché sai che è sincero.
Né uomo né animale saprebbero fingere lo spasimo, simulare il rantolo.
Quello che non sopporti è l’ipocrisia altrui, la doppia morale di chi
disprezza il tuo lavoro e poi, quando ne ha bisogno, cerca in ginocchio la
farmacia di turno.
Il Rhesus ti guarda.
Ormai somiglia a una scimmia quanto Frankenstein può somigliare a un uomo.
È la prova vivente che a dare un po’ d’angoscia ogni vita si ribella, ma a
darne una valanga allora quella vita stessa si piega, poi si rialza, cerca
prudente di riprender fiato, ma senza dire sillaba.
Difficile articolare suoni con le corde vocali recise.
Dopo il dolore, sempre, resta la solenne compostezza, il cuore, rigido, si
chiede se è stato proprio lui a soffrire così, se sia successo ieri o mille
anni fa.
Di certo, si sente meno il tempo se si resta quieti.
Ti sei svegliato e per prima cosa ti sei accorto che la
Morte ti è passata accanto, stamattina.
L’hai capito dall’aria sbalordita che ha la gabbia di fronte, con quella
porta spalancata come la bocca di una cavia nello strazio di un grido muto.
Ti rimiri le mani irsute, ti chiedi cos’abbia reso possibile l’orrido
capovolgimento delle parti.
Un incubo, forse? Annaspi.
Osservi da dietro le sbarre l’uomo che sei stato, il camice bianco; tu
invece ora sei l’aberrazione che hai creato. Non sai per quanto avanti a te
si estenda la strada della disperazione, non sai valutare il dolore, ne sei
appena all’inizio.
Un’altra lenta, lunga giornata d’esperimenti sta per cominciare.
Guardi con occhi umidi il tuo aguzzino implorando silenziosamente quella
pietà che non hai mai concesso.
Sul tavolo del laboratorio, i bisturi allineati luccicano.