Senza ribrezzo né paura seguo il tragitto dei vermi che mi scavano dentro. Non ho più occhi, le mie orbite sono caverne saccheggiate dai gabbiani necrovori, eppure io vedo. Vedo attraverso il foro che ho nella fronte, regalo di un uomo del clan che mi ha punito per non aver risarcito un prestito. Mi ricordo di lui, è l’ultima faccia viva che ho guardato. Non è stato gentile, non mi ha neppure concesso un sepolcro decente. La discarica è il mio cimitero, i bulldozer becchini metallici che ammassano tonnellate d’immondizia alle pendici del Vesuvio dormiente.
Il cielo sembra di cenere. Stille di pioggia fredda si staccano dalle nuvole impiastricciandomi la terra sul volto, si mischiano al percolato che gocciola dai fusti di rifiuti tossici, dai serbatoi di fertilizzante, dalle buste rigonfie di sostanze chimiche. Un rigagnolo torbido nasce da uno di questi totem venefici, serpeggia nel fango e dopo un salto di mezzo metro mi precipita dritto in bocca, laddove la lingua è un mozzicone mangiucchiato dai topi. Bevo mercurio, piombo, solventi, polvere di amianto mischiata a perossidi radioattivi.
Bevo, anche se non vorrei, e
un nuovo sussulto vitale spaventa le cose che già credevano di poter
festeggiare con la mia carne. I muscoli si flettono, le vene tremano mentre
un flusso acido le attraversa bruciandomi il sangue. Mi tiro su, ascolto. Da
lontano mi giungono grida, scoppi, vedo il fumo dei lacrimogeni levarsi
alto. Il clan è dentro l’affare dei rifiuti, ci lucra sopra assieme allo
Stato. La gente invece ha paura, teme per la propria salute. Barcollando
raggiungo la rete, la scavalco, mi trascino in mezzo alla battaglia
terrorizzando centinaia di cuori.
«No alla discarica!» urlo vomitando una bile fosforescente. Poi mi avvinghio
al primo sbirro che mi capita a tiro e gli maciullo a morsi la giugulare.