Quando chiesero come
avevo fatto a trovarla, risposi solo che mi ero guardato allo specchio.
Era il periodo in cui stavo passando dall’età del gioco a quella della
sessualità. L’innocenza, diritto dell’infanzia di tutti, stava per diventare
un ricordo. La stanza dei giochi iniziava a svuotarsi da figurine e pistole
di plastica e presto sarebbe dovuta diventare il nascondiglio di qualche
rivista porno. Anche papà aveva la sua stanza dei giochi, il capanno in
fondo al giardino, in cui non era permesso entrare. Quando chiedevo perché,
mia madre ripeteva sempre con occhio stanco che lì c’erano oggetti
pericolosi e taglienti, attrezzi per il giardinaggio e le riparazioni
domestiche che era meglio non toccare. A papà piaceva un altro tipo di
giochi.
In quel periodo mi guardavo spesso allo specchio, visionavo con attenzione i cambiamenti di quel corpo in crescita che sembrava appartenere poco alla volta a un altro, qualcuno che non avrebbe più condiviso i miei interessi e mi avrebbe cancellato per sempre. Ma la sera in cui la mia infanzia finì, quando guardai non vidi me stesso. Non potevo riconoscermi in quel corpo femminile, nudo e troppo pallido. La ragazza al di là dello specchio parlò, e ogni parola si trasformò in sangue sul vetro. Vai nel capanno, disse. Cerca la botola.
Quando la polizia arrivò e portarono via ciò che rimaneva della ragazza, mi chiesero come avevo fatto a trovarla. Mi sono guardato allo specchio, risposi soltanto.
Sono anni che evito le superfici riflettenti. A causa degli sfuggenti ritratti dati dalle pozzanghere o dagli occhi della gente, ho solo una vaga idea di quale sia il mio volto, come sia cambiato negli anni. Non ho paura che qualcuno possa apparirmi, né di altri messaggi. Ho solo paura di vedere il volto di papà riflesso nei miei lineamenti.