Usciamo
dall'oscurità della macchia e camminiamo alla luce della luna sui ciottoli
che ci dividono dal fiume. Si sente solo il rumore dell'acqua che scorre, e
il suo odore di fresco.
Maria cammina impettita, il bambino che dorme stretto al petto.
- Forse... - inizio.
Mi interrompe con una semplice occhiata. Ne abbiamo già parlato, mille
volte. Ma ho avuto mille ripensamenti.
Avrei voluto che mio padre ci fosse stato, a dirmi che le decisioni vanno
prese una volta per tutte. Ma lui era in Australia, o almeno c'era quando
ancora mi poteva telefonare.
Ci fermiamo a un metro dall'acqua. Maria scosta il bambino e lo guarda. Si
sta svegliando. Muove appena le braccine e le gambotte.
Mi sarebbe piaciuto che mia madre lo vedesse, almeno una volta. Ma lei non
lo vedrà mai, perché era in uno degli aerei del 24 giugno, di ritorno da una
vacanza che ormai non avrà più fine.
Maria fa un mezzo passo verso l'acqua, poi si ferma. Fa un respiro profondo.
- Non ce la faccio.
Le prendo il bambino. Devo farlo subito, o mi mancherà il coraggio. Avanzo
nel fiume finché l'acqua mi arriva alle ginocchia. Sento la corrente sui
polpacci.
Sollevo mio figlio per guardarlo un'ultima volta. È sveglio, ora. I piedini
si muovono freneticamente. Troppo, per un bambino normale. Diventeranno
sempre più veloci, fino a trasformarsi in eliche; le braccia si
atrofizzeranno, le gambe si uniranno e il cranio si inspessirà. Sarà uno dei
tanti bambini torpedo che infestano i mari, quelli che affondano le navi,
che si lanciano in verticale dall'acqua per abbattere gli aerei. Che
trinciano i cavi telefonici sottomarini.
Avremmo dovuto consegnarlo all'esercito, ma nessuno crede più alle vasche
dove dicono di tenerli. Lo avrebbero ucciso.
Mi chino e lo lascio andare nel fiume.