Mykonos. Grecia.
2010. Devo tenerlo a mente per non perdere il senno. Franco, di fianco a me
sul letto, puzza di decomposizione e merda: il suo intestino non ha retto.
Vedo la gola squarciata, sento ancora nelle orecchie il rumore delle zanne
che lacerano, strappano, masticano.
Il terrore annebbia i miei sensi, e non sento neanche troppo dolore quando
il polso sinistro si spezza, permettendomi finalmente di sfilare le manette.
In questi due giorni lei mi ha lasciato ammanettato vicino al cadavere,
godendo del mio dolore e della mia paura: ha giocato un po’ con il corpo del
mio amico dopo averlo sbranato, e le sue lunghe dita affusolate hanno
accarezzato anche me, prima che se ne andasse.
Scappo dalla stanza, via da quella che sembrava solo una comune ragazza
greca, come tante. Pareva una preda facile: Franco e io non abbiamo esitato
quando ci ha invitato a casa sua.
Corro veloce lungo il corridoio buio, ma uno sbatter d’ali vicino alle
orecchie mi pietrifica. “sono qui” mi sussurra una voce, alitandomi sul
collo.
Qualcosa di caldo mi scorre fino alle caviglie: mi sono pisciato addosso. Lei è tornata. La luce si accende, e fra le braccia tiene un neonato. “è per te, avrai fame dopo” dice. “Ma cosa sei?” inutile lottare. I suoi denti brillano candidi e sporchi di sangue “Conosci la mitologia greca?” Ripete, come due sere prima in quel pub. È con quella scusa che ci ha portato a casa sua e noi, contenti, glielo abbiamo lasciato fare: divertimento low cost. Scuoto la testa. “Qui mi chiamano empusa” a me la cosa non dice nulla, e lei se ne accorge. “Ero la regina di Libia una volta” mi dice, con uno sguardo remoto “mi chiamo Lamia”. E in quel momento capisco. Lamia. Un vampiro. Cazzo, un vampiro!