Tutta sua

Avevamo litigato di nuovo.
Litigavamo sempre Bea ed io: ci prendevamo a sberle e facevamo pace. Poi scopavamo così da darci l'un con l'altra la sicurezza che le scuse fossero sentite.
Talvolta mi chiedevo se forse non preferissi la prima parte alla seconda, sicura che le due cose non si potessero scindere. Non tra me e lei, almeno.
Quando i pantaloni mi arrivavano alle caviglie e le mutandine scivolavano lungo le cosce io pensavo solo che tanto non stavamo facendo l'amore. Ormai non lo facevamo più da mesi.
La mia vagina però non sembrava dello stesso parere. Sorda riguardo ai rancori e all'eterno dissidio del ti amo/non ti amo, sentiva solo la voce delle dita che la sfioravano. Prima piano, quasi di sfuggita. Il piacere aumentava con la fugacità del contatto: toccata a singhiozzo come me. Piangiamo, tutte e due.
Bea mi entrò dentro ed io urlai eccitata e ferita. Avevo ceduto di nuovo. Inginocchiata davanti a quell'arroganza, quella violenza, alla sua smania di potere del cazzo. Ero sua schiava perché stavamo insieme da anni. Per quel cordone ombelicale che ci legava. Perché quando mi scopava faceva in modo che non me lo dimenticassi facilmente.
Eccomi qui, sotto di lei ancora. Le mani immobilizzate: lei dirigeva il gioco, l'aveva sempre fatto. Le dita dentro di me spingevano fino a farmi urlare.
Volevo solo gridare che non era giusto. Dovevamo smettere. Dovevamo smettere di non amarci. Ma non potevo. Tutt’al più avrei potuto lanciare un altro lamento sommesso con la bocca semichiusa. E lei l'avrebbe confuso di certo con un gemito di piacere. Perché lei non capiva mai un cazzo. Perché lei voleva capire solo quello che le andava di capire.
Infilò un altro dito e prese a fottermi con più di mezza mano. Più veloce. Sempre più veloce.
Pregai perché smettesse in fretta con questo strazio da cui ero dipendente.
Fammi venire e basta. E poi lasciami andare in bagno. E tu penserai che io stia facendo la doccia. E farai bene a pensarlo perché aprirò il getto dell’acqua ma chiuderò la porta a chiave. Così tu non potrai entrare. Così potrò piangere in silenzio.
- Così... così... biascicai col fiato spezzato, sicura di indicarle la via per accontentarmi. Non calcolai la sua prepotenza.
Bea rallentò. Come avevo fatto a dimenticare? Lei decideva quando dovevo venire. Non io.
Appoggiò la lingua sulla punta del mio capezzolo e la fece scivolare tutto intorno. La punta impazzì, così come ogni centimetro della mia pelle.
Una mano sulla faccia mi coprì bocca e naso. Bea prese a contare.
1-2-3-4-5-6-7-8-9-10
Mi liberò, lasciandomi scombussolata un paio di secondi. Poi di nuovo con una mano spezzò il mio respiro, con l’altra invece continuò a fottermi con più violenza.
Avrei voluto ribellarmi, ma forse amavo essere in suo potere più di ogni altra cosa. Anche più del sesso in sé. E fu così che quando il fiato venne a mancare l’eccitazione aumentò. Era come essere sul punto di venire e l’esatto contrario al tempo stesso. Era come morire cento volte e sentire la vita più densa che mai nelle vene.
E così lei continuava a contare, a buttarmi sott’acqua, contare, e poi tirarmi su per i capelli fradici, qualche secondo e poi di nuovo sotto, di nuovo sua, ancora e ancora.
E io intanto morivo e godevo, e lei contava.
... 25-26-27-28-29-30
E mi liberava. Sussurrava roca contro il mio timpano – ti piace!
La mia unica risposta era un rantolo eccitato che altro valore non aveva se non di un: - sì, ti prego non ti fermare!
Ero sua. Ero sua perché non volevo ribellarmi. Ero sua perché mi piaceva essere sua.
Ancora una volta la sua mano premuta sul viso. Ancora una volta non ebbi la forza di resistere.
40-41-42-43-44-45-46-47-48-49... chiusi gli occhi e mi sentii sprofondare in un gorgo di piacere, mentre la gola si serrava per l’ennesima volta. E la lingua paralizzata non era capace di deglutire. La schiena s’inarcava di febbrile eccitazione e profonda paura.
Poteva anche finire così: il suo corpo schiacciato sopra al mio, la sua mano dentro di me, quell'altra mano che non mi lasciava respirare, il bacino che spingeva impaziente insieme a tutto il resto.
Uno spettacolo acrobatico eseguito a mia insaputa.
Proprio nell’istante in cui il mio corpo stava per cedere a quell’orgasmo velenoso, lei tolse la mano e mi lasciò riprendere fiato.
1-2-3
Sorrise e poi mi gettò di nuovo in apnea.
Furono solo tre secondi. Tre secondi d'aria nei polmoni bastarono a farmi capire.
Se l’avessi lasciata fare anche stavolta non sarebbe finita mai. Non ci amavamo più, ormai da tempo. Non ci saremmo più amate. Non così.
La afferrai per polso con una mano, delicatamente, supplicandola con lo sguardo di smetterla. Lei scosse piano la testa e mi sorrise appena per prendersi gioco di me.
Così, adoperando anche l’altra mano, presi a strattonarle il braccio, decisa a farle mollare la presa. La mano si scostò leggermente ed io presi avida un boccata d’aria, prima di ritrovarmi di nuovo da capo.
La mia audacia ebbe come risultato che le dita dentro di me si fecero più prepotenti, i colpi che mi venivano inflitti più rapidi e profondi.
Tentai di urlare ma la bocca era serrata e la voce sembrava non esistere più.
Lei si fece un po’ più avanti e le ginocchia sopra ai polsi evitarono altre dimostrazioni di coraggio simili a questa.
Il ritmo aumentò ancora. La conta continuava. Ed io mi domandavo se sarei morta prima per il dolore o per l’asfissia.
I secondi di aria si riducevano di volta in volta, mentre quelli di apnea si moltiplicavano. La mano là sotto invece continuava a muoversi veloce e a far scoppiare una serie di urla mute nel mio cervello.
Annaspavo sotto a quel palmo. Era come affogare in un centimetro d’acqua e sentire le forze che via via ti abbandonano per lasciare posto a qualcos’altro.
Non sentivo più il dolore. Non sentivo più l’eccitazione. La mia vagina era il deserto. Sentivo solo di essere sua.
Muovevo le braccia come un uccello con le ali impastate di catrame. Elemosinavo aria dagli spazi tra le sue dita, senza ottenere più di quella che mi occorreva per rimanere sveglia.
Levò ancora una volta la mano da sopra la mia bocca.
1-2
Mi sorrise di nuovo e poi sentii ancora quella pressione sulla faccia che ormai era diventata familiare.
No, cazzo, non può finire così. No, no, no, no, no! Nooooooooo! Io non sono TUA!
Raccolsi le ultime energie che possedevo e, non so come, mi liberai dalla presa che mi bloccava le braccia. Lei non se ne preoccupò e continuò a fottermi e a togliermi il respiro con più prepotenza.
Tentai ancora di scacciare via la sua mano, ma lei si piegò un po’ più avanti e mi schiacciò con tutto il corpo, impedendomi così per la seconda volta di muovermi.
Ero fuori di me. L’aria era diventata il mio bisogno primo, un’urgenza che andava oltre a qualsiasi altra cosa e lei me la stava portando via.
Mi schiacciava la bocca, il naso, la cassa toracica, la volontà...
Con uno strattone riuscii di nuovo a liberare il braccio sinistro. La mano, lanciata a tutta velocità fuori da quel groviglio, afferrò la prima cosa che si trovò a tiro.
Ripetevo sempre a Bea di lasciare il posacenere di vetro in cucina e non sul comodino.
Bastò solo un secondo, un secondo riguardo cui la mia mente è ancora al buio. Un colpo solo, dritto e preciso sulla tempia. Lei cadde giù dal letto come un giocattolo a cui sono state tolte le batterie.
Ricordo solo il corpo di Bea sul pavimento della mia camera. Il suo corpo nudo. E il sangue in una piccola pozza sul pavimento e sul viso. E la cenere e i mozziconi di sigaretta che si mescolavano con i sangue e il sudore creando un impasto scuro.
E poi ricordo che ripresi a far entrare aria nei polmoni. Respirai come non avevo mai fatto: il mio petto su e giù a ritmo regolare. Mentre quello di Bea era immobile, incollato al suolo su cui era appena caduta. Tutta mia.

Barbara Michelerio

Mi chiamo Barbara Michelerio ho ventitré anni, vengo da Casale Monferrato (AL), frequento la facoltà di Lettere presso l' Università del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro di Vercelli e faccio tutti i lavori che mi capitano. Queste sono le informazioni d'obbligo per inquadrarmi. Quello che invece di solito nei curriculum non si scrive è che nella mia vita c'è qualcosa di più grande di tutto questo, un segreto che non sempre si può condividere. L'unica cosa che conta per me, insieme al respirare, è lo scrivere. Scrivo da quando ho avuto abbastanza forza per tenere una penna in mano e da allora non ho mai smesso (anche se questo lo dicono più o meno tutti). Scrivere per me è un lavoro, ma anche un divertimento, ma che dico? Scrivere è come una parte del mio corpo, un organo da cui non mi posso separare nella stessa maniera in cui non potrebbero separarmi dal fegato o dai polmoni senza che ci lasci la pelle. Ho partecipato ad un paio di concorsi di narrativa organizzati dal comune di Casale Monferrato, vincendoli entrambi. Ho pubblicato un racconto per una rivista, sempre locale, tutto qui. Non c'è nulla di esaltante in questa presentazione se non il fatto che scrivo e lo faccio da anni e continuerò a farlo anche se non verrò mai pubblicata. Sono convinta che le armi imbattibili per il successo siano il talento e la perseveranza. Sono certa di possedere la seconda qualità e incrocio le dita per la prima.