amore.
Divertente come si insinui nella vita di ciascuno di noi. Arriva,
inaspettato, dopo anni di spasmodica ricerca, quando ormai le speranze erano
perse nell’oblio della solitudine, e porta la felicità. Quella felicità
incontrollata, stupida, insensata. Quella felicità effimera.
Già, effimera, perché, l’ho scoperto recentemente, l’amore non dura per
sempre.
Quante promesse infrante. È buffo: ci credevo davvero. Tutte quelle parole,
quelle scritte... Vuote, false. E io mi fidavo, ciecamente, ingenuamente.
L’amore è ironico.
Poi si desidera morire, perché senza amore non si è niente, senza amore non
si vive. Ci si sente rifiutati, umiliati, scartati. Tutto soltanto perché
una persona non ci ama più. Una persona che non amavamo più a nostra volta,
magari, ma l’onta della sostituzione non si cancella.
Domande come “Cos’ho che non va?” o “Perché lei e non io?” affollano la
mente. Ci si tormenta, ci si chiede se ci sia o meno una soluzione al dolore
che nostro malgrado proviamo per chi, in fin dei conti, non ci merita.
Si cerca di tornare a vivere, ma la vita senza lui non è più la stessa. Ci
si ritrova da sole ad affrontare il mondo.
Quel mondo che fino al giorno prima sembrava il nostro regno, così bello, e
che improvvisamente si trasforma in un caldo inferno soffocante in cui il
vuoto lasciato da una singola persona non può essere riempito nemmeno da una
folla.
L’amore è devastante!
La ragazza terminò quelle righe con un pensiero negativo.
Non credeva più nell’amore, non credeva più in niente. Si era messa a
scrivere per alleviare la sofferenza, per smettere di pensare, anche solo
per pochi minuti.
Invece, come sempre, era caduta nel vortice della disillusione che
l’avvolgeva da quel dannato giorno in cui tutte le sue certezze erano venute
meno.
Sedeva alla sua scrivania, con la schiena curva e una biro nella mano
destra, chiusa in un pugno talmente stretto da farle male: le unghie
premevano sul palmo lasciandovi tante piccole mezze lune rosse.
Erano giorni ormai che si feriva, più o meno gravemente, per allontanare la
ragione dai suoi strazianti ricordi. Pensava che, se proprio doveva sentire
dolore, quello fisico era preferibile, poiché di sicuro sarebbe passato.
Un tagliacarte giaceva inutilizzato da chissà quanto
tempo nel portapenne.
Lo guardò, con occhi avidi, pensando a come avrebbe potuto scorrere sulla
sua pelle. Lo prese in mano, appoggiò la lama ormai rovinata sul polso e
vide il sangue scorrere copioso, la sua carne lacerata aprirsi in uno
squarcio oscuro e profondo, le sue forze abbandonarla e il suo cadavere
cadere sul pavimento.
Un brivido le percorse la schiena: non le piaceva quello che aveva
immaginato, e di certo non avrebbe avuto il coraggio di rendere reale quella
fantasia.
Eppure, la sua morte sarebbe stata una giusta punizione da infliggere a chi
l’aveva fatta soffrire così tanto: il senso di colpa è una delle croci più
pesanti da portare, e lui avrebbe meritato di trascinarla a vita.
Decise in un lampo qual era la cosa migliore da fare: afferrò il
tagliacarte, lo mise nella sua borsa e uscì, senza prendere altro, nemmeno
le chiavi di casa. Non le importava più di nulla. Non voleva più vivere
senza di lui, il suo unico amore. Sì, l’unico, perché non avrebbe amato mai
più.
Andò a casa sua. Lui rimase sorpreso nel vederla lì, ma le aprì la porta e
gentilmente la fece entrare invitandola a sedersi.
- Cosa ci fai qui?
- Io... Non lo so, volevo solo...
- Non tentare di farmi cambiare idea, lo sai che...
- Non è per questo che sono qui. Volevo solo vederti ancora una volta.
- Smettila di piangere, ti prego.
La ragazza estrasse il tagliacarte dalla sua borsa.
- Che vuoi fare?
- L’amore che provo per te mi sta distruggendo troppo lentamente: è ora di
far cessare questo supplizio!
- Non farmi ridere. Non si muore per amore.
Lei diresse la punta dell’arma verso la sua tempia, decisa a finire i suoi giorni con una morte rapida, se pur cruenta.
- Forse, realizzerai quello che mi hai fatto quando sarò
defunta.
- Sei impazzita?
Fino a quell’istante non aveva ritenuto attendibili le
parole della ragazza: era sempre stata un po’ teatrale. Ma quando notò il
suo sguardo vuoto e spento, capì che non era affatto uno scherzo: si alzò
dalla poltrona e con uno scatto tentò di fermare quell’assurdo atto di
follia, procurandosi varie ferite alle mani. Lei vide il suo sangue ed ebbe
un brivido, come nel momento in cui aveva creduto di potersi tagliare i
polsi.
Non riusciva a farlo. Non doveva: del resto, la sua unica colpa era stata
quella di amare, e non era giusto che fosse lei a pagare. Guardò quel
ragazzo che tanto l’aveva resa felice in passato, lo fissò dritto negli
occhi e finalmente tutto le fu chiaro. Sembrava essersi calmata, così lui le
lasciò andare le braccia.
Continuando a fissarlo, gli disse: - Ti amo.
Lui rimase in silenzio: non l’amava più, lei lo sapeva bene. Nonostante
questo, poggiò le labbra su quelle di lui in un ultimo, disperato bacio
d’addio. Il ragazzo sgranò gli occhi, gli mancò il fiato: compiendo quel
gesto, lei aveva piantato il fermacarte nello stesso cuore che un tempo le
era appartenuto e che, ora, non sarebbe stato di nessun’altra. Lo sentì
pulsare, sempre più flebilmente, fino a quando lui, ormai privo di forze, si
accasciò a terra, gli occhi ancora sbarrati che la guardavano con stupore.
Ancora in piedi, lei lo guardò dall’alto, compiaciuta del suo operato. Poi,
come se lui potesse ancora ascoltarla, gli sussurrò: - Ti sbagliavi: l’amore
può anche uccidere.