Quando ero
bambino amavo i fumetti dei Peanuts.
Mi piacevano i personaggi, il forte contenuto morale delle strisce che non
di rado si trasformavano in storie. Mi piacevano quei bambini che parlavano
come i grandi. Anche io ero così, in qualche modo. Mi riconoscevo in Charlie
Brown, nella sua indecisione e passività. Dentro di me sognavo che un giorno
o l’altro “il bambino dalla testa rotonda” si arrabbiasse e gliela facesse
vedere, a tutti gli altri, che era una persona di valore. Perché io lo
vedevo che lo era.
Ma nelle storie di Schultz non accade.
Mai.
C’è una striscia in particolare che ora mi torna alla
mente.
Grossomodo si svolgeva così, o almeno così io la ricordo e sono certo di non
tradirne il senso generale: Piperita Patty e Marcie erano seduti sui loro
consueti banchi di scuola. Piperita Patty seduta sul banco davanti si
sporgeva verso Marcie e le diceva di avere compreso una grande verità, ossia
che ci sono due tipi di domande, quelle che qualcuno ti fa per verificare se
conosci la risposta e quelle alle quali nessuno sa rispondere.
Vorrei tanto avere compreso il senso di quella striscia quando era il
momento, e invece lo capisco solo ora.
Mamma.
Mi hai educato ad essere un bravo bambino.
Mi hai insegnato che era importante studiare, che era importante essere
persone tolleranti, essere buoni con gli altri, essere prudenti e
coscienziosi. E io ho imparato.
Non credo di essere una persona molto intelligente, però studiavo e i
risultati venivano.
Gli altri bambini correvano, saltavano, gridavano, facevano le marachelle,
cadevano e si rialzavano.
Io no.
Non era da bravi bambini fare baccano, non era da bravi bambini trasgredire
le regole, non era prudente correre e cadere. Tu mi avevi insegnato così, e
io ho imparato.
Ho imparato fin troppo bene.
Gli altri bambini non si interessavano a me. A volte tentavo di unirmi a
loro e alcuni, pochi per la verità, a loro modo cercavano di darmi una
possibilità. Ma a dieci anni parlavo già come un adulto: a loro non piaceva.
Loro volevano che salissi sugli alberi, ma io non me la sentivo, era
pericoloso. Volevano giocare a palla, ma per me era un gioco che non aveva
senso, e comunque sarei stato sconfitto in partenza. Non mi trattavano male,
semplicemente mi lasciavano in disparte.
Ero diverso da loro, e se ne accorgevano.
Quante volte sono tornato a casa da te piangendo?
Tu mi tenevi tra le braccia e mi dicevi di avere pazienza, perché un giorno
gli altri avrebbero capito. Un giorno non mi sarei più sentito così solo.
A dodici anni mi sono innamorato. Era una mia compagna di
classe delle medie e tutti la chiamavano Lalla. Era stata bocciata un anno
ed era l’unica a cui sembrava piacere lo stare con me. Forse perché anche
lei era tenuta in disparte, forse perché era più matura e mi vedeva già come
un figlio.
Non lo so.
Io però volevo toccarla, lei invece andava coi ragazzi delle superiori.
Mi respinse con una risata.
Non ero un uomo per lei e un uomo, questa è la verità, non lo sono mai
diventato.
Rimasi comunque suo amico, quel po’ di affetto che lei mi dava era l’unico
che conoscessi a parte il tuo. Quel giorno, quello in cui mi respinse, corsi
a casa da te a piangere come ogni volta.
Tu mi dicesti quello che mi dicevi sempre: che un giorno, quando fossi stato
più grande e anche gli altri miei coetanei fossero diventati più maturi,
come io ero già, avrei conosciuto una ragazza; una ragazza che avrebbe
capito che io ero una persona buona, che avrebbe compreso tutto l’amore che
avevo dentro e che potevo darle, che avrebbe capito che l’avrei resa felice.
Non come mio padre aveva fatto con te, quel tipo d’uomo che io mai sarei
dovuto diventare.
Io ti credevo. Dovevo crederti, non potevo non farlo.
Prima ho atteso fiducioso, poi ho pregato disperatamente perché quel tempo
venisse.
Ma non è accaduto.
E col tempo quell’amore che avevo dentro è imputridito.
Mamma.
Una parte di me in realtà lo sapeva.
Io non potevo essere amato da altre che da te, perché non potevo essere
uomo, e dunque ero destinato a rimanere per sempre figlio. Lo sapevo, nel
più profondo di me.
Credo di averlo anche accettato, a mio modo, anche se era una cosa
inaccettabile.
Finché c’eri tu ad amarmi la vita era comunque sopportabile.
Ma poi sei morta e nella mia vita non è rimasto più nulla.
E allora sono impazzito, credo.
Sì deve essere così, per forza.
Ora che sono qui davanti a lei capisco tutto.
Innanzitutto quella striscia dei Peanuts.
Ero un bambino adulto, sono divenuto un adulto bambino.
Per tutta la vita ho dato soltanto le risposte giuste alle richieste che tu
mi facevi, non ho mai cercato una risposta che fosse davvero mia, a nessuna
delle domande della vita.
Le richieste non me le facevi davvero, naturalmente, non più da molti anni.
Sono convinto che in realtà non te ne accorgessi nemmeno. E io neanche.
Era come mi avevi educato, o forse come io avevo recepito quell’educazione.
O magari soltanto il mio essere costantemente prigioniero della paura.
Per tutta la vita sono rimasto un bravo bambino, in modo da garantirmi
almeno il tuo amore.
Quando sei morta ho scoperto che senza di te non ero nulla.
Per mesi ho cercato Lalla, ma non l’ho trovata. E’ stata una fortuna per
lei, credo.
Chissà dov’è finita.
E allora tutto quel rancore che ho accumulato in questi anni ha cominciato a
premere verso la superficie, finché non ho fatto quello che Charlie Brown
non ha mai fatto.
Mi sono arrabbiato.
Un mese fa ho avvicinato la ragazza.
Lei era così giovane e graziosa, fragile e fiduciosa.
Si vedeva che si sentiva già una donnina, come Lalla.
Credevo che fossimo diventati amici, ma come possono diventare amici un
adulto di quarant’anni e una ragazzina di tredici? Ora capisco tutto, ma
come sempre è troppo tardi.
Non era colpa di Lalla, né tua. E’ sempre stata solo colpa mia.
Quanto vorrei poter riavvolgere il nastro del tempo fino alla mia infanzia,
ricominciare tutto da capo. Ma anche tornare indietro di un mese sarebbe
sufficiente, già così molte cose si potrebbero ancora salvare.
A questo punto anche solo dieci minuti basterebbero: per tutto il resto
sarei pronto a pagare.
Vorrei solo non averla già uccisa.