Avevo ridotto in
cenere la casa del nonno mentre ancora dormiva, e le fiamme avevano vomitato
le loro lingue sulla sua pelle, assaporandola con gusto incandescente. I
suoi pori espellevano acqua come una pianta che aveva bevuto troppo sale.
Non avevo mai creduto nei totem. La saggezza dei vecchi era cosa che avevo
sentito nelle favole che mamma mi raccontava prima di chiudere gli occhi. Il
resto erano dita raggrinzite e odore di morte marcia. Di cimitero.
Teresa sputò la sigaretta e le diede un calcio. Volò lontano, e nel buio
quella diventò la nostra stella cometa, con la sua scia di tabacco e
nicotina che conduceva verso la nascita del fuoco. Noi Magi avevamo portato
in dono della benzina, copertoni d’auto e uno Zippo.
L’avevamo fatto perché eravamo sicuri che la fiamma gelatinosa avrebbe
richiamato gli zingari, accampati sulle alture. Nella speranza che avrebbero
ballato intorno a quel fuoco, una danza senza collera.
Teresa ricordava poco di ciò che era successo quel giorno di undici anni fa,
ma qualcosa nel profondo delle sue viscere ribolliva e parlava una lingua
che la mente non comprende ma il fegato capisce maledettamente bene. Ed era
venuta all’appuntamento sulla collina, aveva addosso un maglione lungo e una
gonna che nulla aveva a che fare con l’inverno. Le avevo dato un bacio. Le
trame del suo maglione profumavano d’erba. La notte precedente ne avevamo
tritata un po’ e avvolta nella carta. Poi avevamo dato fuoco e respirato la
sua essenza. E un simile procedimento aveva funzionato anche con il nonno di
Teresa, che adesso volteggiava sotto forma di fumo nero e nauseante puzzo,
espandendosi per tutta la vallata. Si affacciava e si intrufolava per
l’ultima volta tra le finestre mezze aperte. Risucchiato nelle narici dei
ragazzini che dormono.
Avevo solo dieci anni e quell’estate non mi ero
comportato bene. Avevo pianto a lungo e le lacrime mi avevano strozzato la
gola. Sbattevo le braccia, e strillavo.
- No, no! Perché? Fatelo domani, perché oggi?
I miei avevano deciso di tagliare il cactus che dava sulla strada perché era
troppo alto, e poteva spezzarsi, cadere sulla testa di qualcuno. Io non
volevo e così avevo cominciato a singhiozzare. Il boia era mio padre. Mi
liquidarono con poche parole.
- Quando crescerai?
- Che sensibile sei, ma cosa te ne importa?
E allora, corsi in casa per non vedere. Aspettai finché i miei singhiozzi
diventarono un solo e unico suono bianco con il rumore della linfa che
schizzava. Così decisi di passare settembre lontano da tutti.
Dai nonni di Teresa.
Avevano una casa di legno incastrato, ferro battuto, di origami e lampadari
di carta. La campagna come giardino.
Il nonno le voleva bene. Le stava intorno, giocava e ballava e le dava tanti
baci, chiamandola stellina, perché lei portava sempre orecchini a forma di
stella. Un pomeriggio, mentre correvo per il corridoio, improvvisamente
inciampai, caddi a terra. Avevo i piedi nudi, e c’era qualcosa di molle e
scivoloso, peloso, come una pelliccia riempita di sapone. Poi arrivò la
nonna e mi tirò su. Mi rincuorò, disse che non era successo niente, che mi
ero solo sbucciato un ginocchio. Avevo la maglietta completamente rossa,
chiazzata di liquido denso. Abbassai gli occhi al pavimento e vidi un ratto.
Era morto. Aveva una lunga coda bianca che pareva spago. Il suo ventre era
rivolto verso l’alto e mostrava dei piccoli e stomachevoli capezzoli, bucati
da aghi d’acciaio finissimo che spuntavano dalla pancia. Il sangue sulla
maglietta, era il suo. Doveva essersi trascinato per un po’, prima di
lasciare i muscoli al torpore della morte. Quell’acciaio doveva essere
freddo.
- E’ una delle trappole, quelle che costruisce il nonno - Mi rassicurò lei.
Dopo un silenzio.
- Se non fosse per lui, questa casa sarebbe infestata! - E rise, inarcando
il sopraciglio in una calma spugnosa e piana, intrisa di profonda isteria.
Se ne rese conto, smise di sorridere. Voltandosi, raccolse con cura
l’animale.
- Vai a giocare e togliti questa, alle macchie penserò io - Disse così, e si
allontanò.
Teresa ed io, dormivamo assieme, in un lettone bianco, in una camera a
soffitto basso, e assi di legno. Il nonno si distese fra me e lei, e
cominciò a raccontare. Le sue storie di guerra. Parlavano di bombe e di
compagni dilaniati, smembrati. Del cibo che non c’era. Dei modi di
arrangiarsi per sopravvivere. Mangiare la carne dei cadaveri. Teresa
cominciò ad agitarsi e così lui la accarezzò, toccandole il viso con il
dorso della mano. Poi scese. La gola. Adesso le toccava il pigiamino e
cominciò a slacciarlo bottone per bottone con un suono che non potrò mai
dimenticare e le sue mani avvizzite cominciarono a giocare con i capezzoli.
Lui li tirava e quelli si allungavano. Erano di gomma. Pensai che avrebbero
potuto raggiungere il soffitto, perché lui tirava tanto. E mordeva. E lei
aveva un bellissimo seno liscio, e anche gli occhi fissi, di plastica. Poi
le sfilò gli orecchini e mi guardò, alzando il sopraciglio in maniera
innaturale. Avanzò carponi verso di me, sul materasso. Strappò via la mia
maglia, e si avvicinò con le punte degli orecchini a stella, ai miei
capezzoli. Avevo cercato, per tutto il tempo, di tenere gli occhi chiusi.
A quel punto, non potei far altro che aprirli.
Ho pubblicato il racconto s-s-s-Salti! c-c-c-Cambi! sulla rivista L’abile Traccia di Pietro Pancamo, Le Verità Assolute e Piombo Nel Cielo su Carmina, rivista di poesia della casa editrice Il Foglio Letterario, Sotto Vetro, per Il Paradiso Degli Orchi e Invisibile Influenza su Scritti Inediti.