L'armadio

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2009 - edizione 8

I Flic sciamavano per l’appartamento sudicio di Rue Petrelle mentre l’ispettore della Sureté controllava i resti del corpo straziato che qualcuno avrebbe catalogato e fatto sparire.
L’alba livida di Parigi aveva illuminato la distesa di tetti sottostanti. Un raggio sghembo ritagliava sul muro il profilo dell’assassino. Un agente continuava a tormentarsi i baffi a manubrio. Erano tutti stanchi, tutti disgustati.
- Non sono stato io, - urlava l’uomo. – E’ stato lui, lo scheletro nell’armadio, è lui che comanda!
L’Ispettore Guiborg allungò il mento verso la vittima indicando lo squarcio che inzaccherava il pavimento.
- Già. E che se ne fa delle interiora? E’ uno scheletro, no? Mica se le mangia...
Un tremolio scosse l’assassino stretto tra due poliziotti.
- Lo sa solo lui ... lo sa solo lui...
Fu trascinato via passando davanti al grande mobile intagliato, ovviamente vuoto.
Rimasto solo, Guiborg ripensò alle prostitute fatte a pezzi, alla caccia frenetica, alla fortuna di aver rintracciato quell’ebanista impazzito.

Qualche sigaretta dopo, aveva finito di perlustrare la stanza. Non c’era granché da far sparire, una collanina d’oro sottile quanto una promessa, due miseri franchi.
- O io, o quelli delle pulizie... - disse arraffando il tutto.
Per uno “scrupolo di coscienza” andò a dare un’ultima occhiata all’armadio occupato da polvere e tarli.
Era un catafalco orribile, intarsiato di mostruosità che incorniciavano le ante massicce.
Il doppio fondo si azionò da solo, perfetto meccanismo di contrappesi.
La cicca di Guiborg cadde giù dalla bocca spalancata.
Piegato in un groviglio di ossa lo scheletro lo fissava. Stupendo. Imperioso. Famelico.
- Sai cosa devi fare ora? - Sibilò senza usare parole.
Rigido nei gesti, Guiborg chiuse l’armadio frugandosi nelle tasche di giacca e panciotto.
Scendendo le scale della mansarda non pensava altro che: - dovrei avercelo un serramanico da qualche parte...

Fabio Lastrucci