I Flic sciamavano
per l’appartamento sudicio di Rue Petrelle mentre l’ispettore della Sureté
controllava i resti del corpo straziato che qualcuno avrebbe catalogato e
fatto sparire.
L’alba livida di Parigi aveva illuminato la distesa di tetti sottostanti. Un
raggio sghembo ritagliava sul muro il profilo dell’assassino. Un agente
continuava a tormentarsi i baffi a manubrio. Erano tutti stanchi, tutti
disgustati.
- Non sono stato io, - urlava l’uomo. – E’ stato lui, lo scheletro
nell’armadio, è lui che comanda!
L’Ispettore Guiborg allungò il mento verso la vittima indicando lo squarcio
che inzaccherava il pavimento.
- Già. E che se ne fa delle interiora? E’ uno scheletro, no? Mica se le
mangia...
Un tremolio scosse l’assassino stretto tra due poliziotti.
- Lo sa solo lui ... lo sa solo lui...
Fu trascinato via passando davanti al grande mobile intagliato, ovviamente
vuoto.
Rimasto solo, Guiborg ripensò alle prostitute fatte a pezzi, alla caccia
frenetica, alla fortuna di aver rintracciato quell’ebanista impazzito.
Qualche sigaretta dopo, aveva finito di perlustrare la stanza. Non c’era
granché da far sparire, una collanina d’oro sottile quanto una promessa, due
miseri franchi.
- O io, o quelli delle pulizie... - disse arraffando il tutto.
Per uno “scrupolo di coscienza” andò a dare un’ultima occhiata all’armadio
occupato da polvere e tarli.
Era un catafalco orribile, intarsiato di mostruosità che incorniciavano le
ante massicce.
Il doppio fondo si azionò da solo, perfetto meccanismo di contrappesi.
La cicca di Guiborg cadde giù dalla bocca spalancata.
Piegato in un groviglio di ossa lo scheletro lo fissava. Stupendo.
Imperioso. Famelico.
- Sai cosa devi fare ora? - Sibilò senza usare parole.
Rigido nei gesti, Guiborg chiuse l’armadio frugandosi nelle tasche di giacca
e panciotto.
Scendendo le scale della mansarda non pensava altro che: - dovrei avercelo
un serramanico da qualche parte...