Bioparco

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2009 - edizione 8

La donna spolpa l’ultimo pezzo di carne con la gola piena d’acido. Deglutisce per ricacciare indietro il conato e comincia a distribuire i pezzi.
Preferirebbe pulire merda per il resto della vita piuttosto che preparare il pasto, ma al Bioparco i turni si tirano a sorte e nessuno osa lamentarsi. Può sempre andare peggio.
Ha una fame rabbiosa, ma quel lavorio di bocche e denti che si avventano sulla carne le dà ancora il voltastomaco.
Oggi salto, pensa avvilita, e torna all’angolo della macellazione. Raccoglie gli scarti e li ammucchia alla base del vetro.
Fuori, centinaia di Occhi la fissano: singoli bulbi grossi come pugni se ne stanno sospesi, in un volo ronzante, puntati verso l’interno del recinto.
L’iride vitrea e priva di pupilla, la palpebra un’ala d’insetto, si aprono e si chiudono con la voracità d’una bocca affamata, in un ripetersi ossessivo di click.
Ma a quello ormai s’è abituata. Sono otto mesi che s’è svegliata chiusa là dentro.
Afferra una tibia e con un lancio preciso la catapulta dall’altra parte.
Gli Occhi sussultano in un impazzare d’ali. Poi, morbosi, passano al recinto di esemplari asiatici.

La donna continua a scagliar fuori ossa, fino a eliminarle tutte.
Il suo turno è finito, lo stomaco urla di nausea e fame.
Si siede in disparte, le ginocchia al petto, l’erba dura che le punge il sedere scarno.
Osserva gli ultimi dei suoi compagni.
Il ragazzo che pulisce la latrina. La bambina nata due mesi prima, in cattività.
Gli uomini e le donne ormai ridotti pelle e ossa.
Pensa alla ragazza macellata quel mattino. Avrà avuto sì e no vent’anni. Nemmeno una lacrima, quando la sorte l‘ha scelta. Nemmeno un grido di dolore. Solo rassegnazione.
La donna scuote il capo, valutando le alternative. C’è solo da sperare in un destino migliore, l’indomani.

Valchiria Pagani