Ho fame. Ho
freddo. Sono chiuso da circa un mese nella mia casa. Ho quasi finito il cibo, mi rimane
solo qualche scatoletta di tonno e poca acqua nella vasca da bagno. Il freddo mi penetra
nelle ossa con dita di ghiaccio.
La centralina del riscaldamento non va da qualche giorno ma non ne sono sicuro. I giorni
sembrano infiniti ed è facile perdere il senso del tempo. Questo dannato inferno è
emerso nei primi giorni di novembre.
Sono in uno stato pietoso. Butto le mie evacuazioni dal balcone. Non mimporta della
dignità che getto ad ogni secchiata, spero solo di colpirne il più possibile di quelli
abomini. Sono ovunque i morti. Fissano il vuoto o leternità della loro condanna.
Vagano senza meta inseguendo pensieri semplici e ricordi annebbiati di quello che erano.
Sembrerebbero quasi persone normali se non avvertissi il loro fetore e il loro cupo
lamento. Sento i loro gemiti, in strada. Sembrano venire dalle mura stesse della mia
abitazione.
Non so se il mio vicino ce lha fatta. Forse è proprio lui che gratta
incessantemente alla porta blindata. Sto sopravvivendo a fatica e mi ritengo fortunato a
non essermi ancora ammalato; di questi tempi un semplice raffreddore sarebbe ingestibile.
Gli incubi mi tengono sveglio di notte. Reminescenze dellinizio
dellapocalisse.
Tutto è accaduto in un attimo: città, governi, nazioni intere fagocitate
dalloscurità della piaga.
La morte ha abbracciato lumanità per traghettarla in unepoca di profondo
terrore.
Già da giorni medito il modo migliore per togliermi la vita. Guardo la folla di morti in
strada. Ho limpulso di sporgermi più del dovuto. La caduta è sorprendentemente
lenta; ho visto davvero la mia breve vita scorrere come un film. Poi limpatto. Le
gambe disintegrate, il bacino frantumato. Il sangue scorre denso verso i canali di scolo;
ho freddo
ho fame!