Polvere

Quando la fame chiama esco dal mio rifugio al crepuscolo, sotto forma di una nube informe di polvere nera e scivolo veloce fra gli alberi, giù per la vallata, come un’ombra tra le ombre.
Mentre calano le tenebre la fame cresce rapidamente, ma non sono mai precipitoso, so di avere una sola notte di caccia a disposizione. Perciò giunto sul paese individuo con calma la mia preda, qualche incauto paesano che sfida l’oscurità di una notte senza Luna, magari ubriaco, per me non fa alcuna differenza.
Attendo il momento più propizio e poi gli piombo addosso.
L’avvolgo come una folata di vento gelido, gli penetro nella gola e nei polmoni e è mio. Posso provare ciò che prova lui, ne avverto il panico, il cuore che accelera fin quasi a scoppiare, il senso di soffocamento e il dolore terrificante di migliaia di aghi che perforano il suo petto. Poi si dissolve con me, siamo una cosa sola, nell’aria gelida della notte del Solstizio.
Un istante dopo scivoliamo insieme attraverso il bosco, fino al mio rifugio scavato nella roccia, collegato alla superficie solo da uno stretto e tortuoso budello ampio non più di un palmo di mano umana.
A quel punto assumo forma e consistenza umanoide, così come la mia preda, che scaravento in un anfratto chiuso da un’inferriata corrosa dal tempo, ma ancora molto resistente.
Il fuoco tremolante di una torcia illumina la grotta, non perché io ne abbia necessità, ma perché l’umano possa vedere e essere assalito dal terrore.

L’umano si rende conto di non avere via di scampo, vede tutt’attorno a sé frammenti di crani, femori, ogni genere d’ossa, lì da dove nessuno è mai fuggito e da dove nessuno potrà mai udire le sue grida.
Mi nutro della loro paura, ancora prima che del loro sangue.
Poi gli getto il mangime e attendo.
All’inizio nessuno mangia, capiscono subito di cosa si tratta, bevono soltanto l’acqua carica di calcare che filtra dalla roccia dell’anfratto, ma i giorni passano e alla fine è sempre la fame a avere la meglio. Quando l’ospite si nutre è giunto infine il momento tanto atteso.
Apro l’inferriata, lo sollevo per il collo con facilità, indugio per qualche istante, poi gli infilo al collo un cappio di fil di ferro arrugginito e lascio che il suo peso faccia il resto.
Uno sbuffo di polvere di ossido di ferro gli infiamma gli occhi, il filo arrugginito penetra nella carne, la preda si agita violentemente con tutte le sue ultime forze, ma sa che il suo destino è segnato.
Vorrebbe urlare per l’immane dolore, ma non può.
La mia immagine si specchia per un attimo nelle sue pupille dilatate, incorniciate da sclere ormai rosso sangue.
Mi gusto appieno gli ultimi attimi di assoluto terrore e dolore che attraversano la sua misera mente, traendone forza e piacere, finché il lume della coscienza lo abbandona e uno scroscio di urina si riversa a terra.
Squarcio il suo corpo in più punti e aspetto che il sangue sgorghi per gravità nel grande paiolo di rame sottostante.
Poi scuoio il cadavere e gusto appieno il sapido sapore della sua pelle e dei suoi depositi adiposi, prima di avventarmi sulla linfa rossa e saziarmene.
A quel punto spengo la torcia, ormai inutile e trascino ciò che rimane della mia preda alla grande macina manuale. Giro la manovella con forza e trito finemente ossa, muscoli e interiora, ottenendo così il preparato che una volta essiccato diventerà nuovo mangime per il prossimo ospite.
Fatto questo mi dissolvo nuovamente in una nube informe di polvere nera, che si adagia sul fondo della grotta, dove rimarrà per un intero ciclo di Saros, fino alla prossima notte di Solstizio d’inverno priva di Luna.
Ho mietuto innumerevoli anime nel corso della mia esistenza, ma sono consapevole del mio ineluttabile destino.
Alla fine perirò anch’io, fallirò una caccia e illuminato dalla pallida luce del Sole invernale, la mia essenza si disperderà come polvere nel gelido vento di Tramontana.

Simone Babini