Al mio amico Nuccio
Ogni giorno nella
grande vallata, tutta gialla e verde, il sole sorgeva da dietro il campanile
della chiesa e tramontava tra le colline azzurre che si rincorrevano a
perdita d’occhio fino alla lontana pianura. Filippo le poteva vedere
sporgendosi dietro il capanno degli attrezzi e appoggiandosi all’albero di
fico sospeso sulla scarpata. Quando la mamma si accorgeva che lui era lì, lo
sgridava sempre e allora, doveva cercare di non farsi sorprendere, ma doveva
comunque farlo perché guardare il sole sparire laggiù, in quei luoghi che
spaziavano verso l’infinito e immaginare di poter volare velocissimo
inseguendolo, era il momento della giornata che più preferiva.
Il papà di Filippo era sempre via per lavoro e lui e la mamma trascorrevano
i lenti pomeriggi estivi quasi sempre soli tra la grande casa circondata
dagli alberi, il cortile di terra rossa e la vigna che precipitava quasi a
picco verso la piccola stazione del treno. Filippo possedeva una bicicletta
rossa a cui aveva applicato, sul manubrio, lo stemma giallo del cavallino
rampante, e pedalava per ore intere immaginando di essere al volante di una
formula uno come il suo idolo Niki Lauda. A dieci minuti di bici da casa
sua, c’era un’altra casa, piccola e gialla, con il tetto a spiovente di
tegole marroni. Lì, abitava il suo amico Giacomo. Era l’unico amico con cui
amava passare il tempo, perché gli altri bambini del paese, dal momento che
vedevano Filippo solo d’estate, lo consideravano un forestiero e non lo
facevano quasi mai giocare a pallone con loro. In più, per tornare dal paese
doveva fare una ripidissima e interminabile salita e allora, preferiva mille
volte andare da Giacomo che era vicino e gli permetteva sempre di giocare
con lui. Giacomo, però, non era un bambino. Era un signore con un grande
garage, dove aggiustava le macchine. Ma non era un meccanico come Filippo
aveva creduto in un primo tempo, era un carrozziere, cioè era quello che
faceva tornare le macchine nuove dopo che avevano avuto degli incidenti.
A Filippo piaceva stare lì, anche perché il suo amico, non era sempre
impegnato a lavorare. Spesso giocavano insieme e, la cosa bella, era che
ogni giorno si inventavano dei giochi nuovi. A volte delle mollette di
plastica colorata per la biancheria si trasformavano in due eserciti di
soldatini che si bombardavano a vicenda con dei sassolini; a volte con i
mucchi di sabbia che si trovavano ai lati della casa costruivano dei
percorsi tortuosi per le biglie ma potevano essere usati anche dalle
macchinine; a volte facevano delle gare a chi raccoglieva più ciliegie o
mandorle dagli alberi intorno alla casa. Ma quello che più lo entusiasmava
era quando andavano in soffitta e Giacomo faceva usare a Filippo
l’attrezzatura per mettersi in contatto con gli extraterrestri. C’erano
tanti aggeggi elettronici pieni di luci verdi e rosse e con numeri che
cambiavano in continuazione, aghi che oscillavano in base al rumore e ai
suoni, un mega altoparlante e un microfono spaziale che sembrava uscito da
un episodio di Spazio 1999. Filippo aveva imparato a non avere più paura
degli alieni, dopo aver conosciuto Giacomo. Prima, di notte, faticava ad
addormentarsi, nella grande casa silenziosa e aveva perfino timore di
attraversare il lungo corridoio e raggiungere la stanza dove dormiva sua
mamma. In città non aveva nessun problema, ma quando si trasferivano in
campagna, le sue notti cominciavano a popolarsi di alieni e mostri malvagi.
Questo fino a quando non conobbe Giacomo. Sì, perché lui gli aveva
confessato di essere un extraterrestre di quelli buoni, in missione segreta
per conto di qualche governo interstellare, giunto sulla Terra per
difenderla da possibili invasioni di alieni cattivi. Finché Giacomo fosse
stato lì, lui non avrebbe avuto nulla da temere. Così, quando Filippo
faticava ad addormentarsi, bastava che scostasse la tenda della sua finestra
e riuscisse a vedere la luce ancora accesa in casa di Giacomo, per
tranquillizzarsi immediatamente.
L’amicizia con quello strano signore era la cosa più interessante e
affascinante che gli fosse mai capitata. Aveva tante domande da porgli;
doveva saziare la sua immensa curiosità, ma la cosa che più di ogni altra lo
eccitava, era quando Giacomo gli descriveva l’astronave madre da cui
proveniva.
La casa di Giacomo era circondata da grandi campi coltivati e, in un punto
lontano, si poteva vedere distintamente una sorta di piramide fatta di
grosse pietre. Là sotto era nascosta la navicella di Giacomo. Qualunque
bambino non avrebbe resistito alla tentazione e sarebbe andato a curiosare
per vedere da vicino una simile cosa. Ma non Filippo. Il suo amico gli aveva
fatto giurare che mai, a meno che lui non fosse improvvisamente scomparso,
sarebbe dovuto andare a vedere sotto quel mucchio di pietre. Se fosse
accaduto, Giacomo sarebbe stato costretto a far ritorno sul suo pianeta,
perché avrebbe significato che la missione segreta era fallita. Filippo
voleva troppo bene a Giacomo e l’idea che lui potesse lasciare la Terra e
non tornare più, lo intristiva a tal punto che non osò mai neppure
avvicinarsi al nascondiglio della navicella.
Passarono cinque estati insieme e Giacomo insegnò tante cose a Filippo, poi,
un giorno di settembre, quando lui aveva già compiuto tredici anni, si
dovettero salutare perché papà aveva deciso di vendere la casa in campagna.
Filippo era triste e piangeva perché sapeva che molto probabilmente non
avrebbe più rivisto il suo migliore amico. Quello che riuscì in qualche modo
a calmarlo, fu l’ampio sorriso di Giacomo e la sua strizzatina d’occhio che
faceva intendere, più di ogni altra cosa, che sarebbero rimasti per sempre
complici di quel grande segreto. E poi, chi poteva dire con certezza che non
si sarebbero più rivisti?
Oggi Filippo è tornato nel luogo dove ha trascorso cinque
estati della sua infanzia.
Sono passati parecchi anni... più di venti; Filippo stava tornando da
un’importante riunione di lavoro che lo ha portato fuori città. Guidava in
autostrada assorto nei suoi pensieri quando, con la coda dell’occhio, ha
rivisto il famigliare campanile della chiesa da cui spuntava il sole ed è
stato colto da una leggera e improvvisa malinconia. Ha deciso in pochi
istanti di uscire dall’autostrada, per farsi un veloce tuffo nel passato.
Tanto non sarebbe riuscito comunque ad arrivare in tempo per cena. La strada
era ancora ripida come la ricordava anche se ora, al posto della ghiaia,
c’era l’asfalto. Dietro la collina spuntava la casa gialla col tetto marrone
identica a come era impressa nella sua memoria. In un attimo si era trovato
davanti a quella che era la porta a cui bussava ogni giorno dopo che la
mamma gli aveva preparato la merenda. La signora che, un po’ sospettosa, gli
aveva aperto, aveva detto che quella casa era stata disabitata per un paio
d’anni e che lei l’aveva comprata da un’agenzia da altrettanto tempo. Non
aveva conosciuto il vecchio proprietario ma le sembrava che le avessero
detto che fosse morto già da un po’. Filippo chiese alla signora il permesso
di poter raggiungere il limite del campo dove ancora resisteva in piedi il
vecchio mucchio di pietre e quella glielo concesse senza sollevare problemi.
Oggi è stata la prima volta che Filippo ha visto da vicino quella specie di
piramide. Mentre si avvicinava, sentiva un groppo in gola e gli occhi si
inumidivano appena. Forse era colpa del vento gelido che spazzava il campo.
Sembrava una costruzione piuttosto primitiva, ma non riusciva a capire quale
utilizzo potesse mai aver avuto. La parte superiore era crollata e ora
somigliava più ad una capanna senza tetto che ad una piramide. All’interno,
fatta eccezione per qualche escremento di animale selvatico, forse una
volpe, non c’era nulla.
Filippo non era triste e nemmeno troppo malinconico. Riusciva distintamente
ad immaginare Giacomo che, conclusa la missione, liberava la navicella dal
nascondiglio e faceva ritorno all’astronave madre.
La Terra non aveva mai subito attacchi alieni e, quasi certamente, il suo
amico, sotto mentite spoglie, stava proteggendo qualche altro pianeta più a
rischio, in un imprecisato punto dell’universo.