“Oh,
fai piano che è delicato.”
“Che mi frega, tanto è assicurato.”
“Sì, ma se lo rompi vai tu a dirlo al direttore.”
È agosto e nel museo si crepa di caldo. I fondi scarseggiano e
l’amministrazione ha deciso di risparmiare anche sul condizionatore.
Nunzio e Gaetano, uno secco e l’altro tondo, sembrano la versione sudata di
Stanlio e Ollio. La causa del loro battibecco è il quadro che stanno
trasportando: il Ritratto di signora, autore sconosciuto, datazione
incerta. Il pezzo più pregiato del museo, prestato eccezionalmente a una
pinacoteca della capitale per una mostra estiva.
“Certo che è proprio una crosta inguardabile, eh?” ghigna Nunzio.
“Mio nipote di cinque anni disegna meglio,” fa di rimando Gaetano. “Non lo
vorrei in salotto neanche se me lo regalassero.”
“Allora, cos’è ‘sta caciara?”
Preceduto dal suo vocione, Imposimato compare sulla soglia, una lattina
ghiacciata in mano. Indica il dipinto, sepolto sotto un’abbondante dose di
cellophane. “Dai, muovetevi a caricarlo sul furgone. Stasera gioca la
Nazionale.”
“Potresti anche aiutarci,” dice Nunzio guardandolo male.
“Eh, mi spiace.” I baffoni a manubrio di Imposimato lasciano intravedere un
sorriso. “Io sono il supervisore e come tale devo limitarmi a
supervisionare.”
“Ah sì?” fa Gaetano. “E allora supervisionami ‘sto ca...”
Il grido gli tronca a metà la parola. Un grido alto, stridulo, che
riecheggia tra le sale vuote del museo e fa raggrinzire la pelle ai tre
uomini.
“Cos’è stato?” balbetta Imposimato.
“Non lo so. Ma veniva dal quadro”.
Nunzio e Gaetano posano la tela sul pavimento. Poi guardano Imposimato, in
attesa di un ordine che tarda ad arrivare. “Diamo un’occhiata,” capitola
Imposimato. Non sorride più.
Posa la lattina e, con mano tremante, inizia a svolgere gli strati di
cellophane. Nunzio e Gaetano, trattenendo il fiato, spiano da dietro le sue
spalle.
Imposimato strappa l’ultimo pezzo di cellophane. Il quadro è intatto, e la
signora li osserva con la sua solita espressione enigmatica.
“Tutto a posto,” sospira Imposimato, sollevato.
“Cos’è quello?” domanda Gaetano. Con un indice grassoccio indica un punto
del dipinto in basso a destra. Imposimato segue la direzione del dito e nota
che la signora, ritratta a braccia conserte, stringe ora nella mano destra
una larga lama luccicante. Nunzio schiaccia il naso contro la tela:
“Sembrerebbe un coltello. No, un machete...”
“Io sono sicuro che prima non c’era,” dice Gaetano, bianco in volto.
Si guardano, ma nessuno sa cosa aggiungere. Nonostante l’afa, le loro
schiene sono impregnate di sudore ghiacciato. “D’accordo, basta stronzate,”
dice alla fine Imposimato con una voce che si sforza di essere convincente,
“adesso noi imballiamo il quadro, lo carichiamo sul furgone e lo spediamo a
Roma. Dopodiché non è più un problema nostro.”
Fa per afferrare la cornice, ed è allora che la signora del quadro si muove.
Con un unico, fluido movimento, ruota il machete e incide un taglio
verticale sulla tela. Senza smettere di sorridere, afferra i lembi del
foglio, li scosta con delicatezza e si issa fuori dal quadro, di colpo reale
e tangibile.
Imposimato, sconvolto dall’orrore, resta bloccato in un’assurda posa a mani
protese. Nunzio, dietro di lui, sussurra: “Gesù Santo...”
Gaetano scappa verso l’uscita. O almeno ci prova. Non fa in tempo a fare tre
passi che la signora gli è addosso con un balzo inumano. Un fendente, e la
testa di Gaetano salta come un tappo di champagne. Il corpo compie un altro
passo, poi si accascia al suolo.
Nunzio cade in ginocchio, come se una forbice gli avesse reciso i muscoli
delle gambe. “No, la prego, signora,” singhiozza, le labbra lucide di muco,
“noi scherzavamo... ci lasci andare... la prego...”
La signora del quadro non risponde. Inizia a mulinare il machete, dapprima
lentamente, poi sempre più veloce.
Nunzio chiude gli occhi, mentre la lama cala su di lui.