Iniziammo a
cuor leggero, nelle ore più diverse e nei luoghi cui la consuetudine ci destinava. Non so
come avvenne per gli altri: cè chi aspettò il letto e la sera, come me, mentre
altri avranno sfruttato i ritagli di tempo di una vita laboriosa o svagata; senza dubbio,
ci fu chi iniziò a leggere già in libreria o in biblioteca, con il volume ancora odoroso
di stampa. Altrettanto sicuro è che qualcuno, più accorto o semplicemente inviso alle
lunghe letture, smise nello spazio di poche pagine per affossare il libro nel
dimenticatoio di casa; altri ancora, più fortunati, lessero con superficialità.
Ci appassionammo subito, invece - noi, i lettori attenti - alla vicenda, quando dopo poche
pagine lente, lautore ci conquistava con un coup de théatre piacevolmente
inedito; o almeno, così successe a me. La ricerca del protagonista era quella di un eroe
stendhaliano, solo, ribelle, sfortunato e meschino, come tante ne avevo letto; solo, vi si
aggiungeva un tocco di odio al genere umano, e in particolare verso leroe stesso. Le
frasi erano sentenziose e memorabili, i progressi pochi e inaspettati; addentrarsi nella
lettura si faceva man mano più difficile e appagante.
Le parole erano foglie su un prato, prima, e in unarena verde sempre più alta e
paurosa, poi; davano limpressione di essere simili fra loro, ma non ce nera
una che si ripetesse con lo stesso significato o la stessa sfumatura (illusione forte e
duratura creata solo dalle foglie, come sa chi ha passato una o due serate dautunno
a osservarle cadere). Le lettere si distribuivano sulle venature scure, ordinate nella
loro infinita sequenza; le frasi si abbarbicavano lungo i gambi e gli steli,
attorcigliandosi tutto attorno, cosicché noi eravamo costretti ad avvicinare la testa
girando intorno alla pianta, piegati. I capoversi si disponevano in cespugli, i capitoli
in macchie, sparse qua e là in quella che diventava una foresta estesa, purtroppo per
noi, in tutte le direzioni.
Fu alla prima discordanza - alla prima frase già letta, al primo filo logico spezzato -
che capimmo, chi prima chi dopo. Ci eravamo persi. A voltare lo sguardo indietro si vedeva
solo vegetazione, per chilometri, una forma compatta e indistinta. Solo di fronte a noi, a
volte, si scorgeva una radura, un sentiero chiuso. La nostra unica speranza era riannodare
i fili della narrazione, ricostruire i pensieri del nostro protagonista e seguirli fino
alla fine, fino alluscita di quella selva.
E con quanta pena ci rimettemmo allopera, allora, soli e oppressi da quel pensiero
sconcertante!
Tanto più, che limpresa si faceva sempre più ardua. Abbondavano le sentenze di
spirito, i motti filosofici e i sermoni morali: pochi erano i riferimenti temporali e le
evoluzioni di quella pigra storia borghese, che ci permettessero di separare lincubo
del protagonista dal nostro. Landamento orizzontale degli eventi si rifletteva poi
nei cespi, distribuiti in ordine casuale e indistinguibile: solo un paziente lavoro di
lettura e memoria riusciva a riordinarli, lavoro sfiancante e ingrato, che ci faceva
maledire a ogni passo la nostra condizione.
Potevamo lavorare solo di giorno; di notte, fermi e infreddoliti, potevamo solo osservare
la scura volta del cielo annuvolato, rabbrividendo a ogni voce delle bestie notturne. Di
giorno e di notte, poi, era la battaglia con le mille creature dei prati, millepiedi,
ragni, colonie di formiche e bruchi solitari, bisce infide. La vegetazione sembrava quella
che in genere preannuncia uno stagno o un fiumiciattolo, ma non cera traccia
dacqua nei paraggi; daltronde, la vista dellorizzonte ci era
costantemente preclusa. Angosciosa più di tutto, la presenza delle felci e delle fronde
incombenti su di noi: ci sovrastavano di continuo, con il loro carico insopportabile di
parole da decifrare, feste paesane, paesaggi colorati, serate di pianto, ombrelli da
donna, chiese normanne, cavalli, vizi e follie delluomo, di ogni sorta e dimensione,
urla, gemiti, sorrisi, malvagità, parole.
Non eravamo soli: fin dai primi giorni avevamo avvertito la presenza di nostri simili,
persi nellimmenso verbaio che era la nostra prigione. Nessuno si avvicinava durante
il lavoro: ci ritrovavamo piuttosto nelle pause, fra le radure che spuntavano qua e là,
nei misteriosi sentieri che non portavano da nessuna parte. Parlavamo poco, e di cose
tristi: tentare di collaborare era inutile. Quando qualcuno cercava di raccordare il suo
lavoro con quello di un altro, nascevano mille dubbi, sbagli, angosce: dove finisce
luno? dove inizia laltro? e se qualche frase è rimasta indietro?
Così, lavorare daccordo era impossibile; tanto più che ognuno era geloso dei
propri progressi, e pochi permettevano di darci unocchiata. Passava il tempo: vidi
uomini, donne, ragazzi, alcuni entrati da poco, altri che leggevano da tempi lontani e
dimenticati. Riconobbi e salutai con stupore due persone che avevo conosciuto nel mondo
esterno; e mi toccò di parlare, gli occhi gonfi di lacrime (più di paura che di
tristezza), con una terza, ed era una persona che non avrebbe dovuto parlare affatto.
Così seppi, con un brivido, che là dentro si moriva.
Ogni tanto, lui - lautore - passava da noi, a darci lo sprono e a insultarci. La
prima volta che lo vidi, destò una grossa sensazione nel piccolo gruppo con il quale mi
trovavo. Arrivò dal cuore della vegetazione, con una carrozza sconquassata e logora, dai
curiosi fregi dorati che me lavrebbero fatta riconoscere tra mille. Scese, con una
piccola schiera di suoi collaboratori o amici, e iniziò immediatamente a urlare, gli
occhi rossi infuriati e la voce roca dal troppo pianto. Ci si avvicinava, e minacciandoci
con un frustino - che mai peraltro gli ho visto usare sul serio - incitava costantemente
al lavoro, gridando di tenere gli occhi bassi e fare attenzione anche alle foglioline che
spuntavano direttamente dal terreno - ché spesso vi si annidava anche là un articolo o
un segno dinterpunzione.
Fare domande era completamente inutile, come dovetti imparare alla prima occasione. Si
trattasse di una domanda su uno snodo fondamentale della trama, o su una sfumatura del
dialogo, o anche solo un complimento a un passo particolarmente riuscito, la risposta era
sempre identica: lautore andava fuori dai gangheri, ci insultava e ripeteva di
proseguire la lettura, senza perdere un attimo di tempo. Detto questo, spariva
nellepica carrozza, veloce come una furia, riprendendo il suo eterno cammino fra i
disperati.
Sulle ragioni del suo comportamento, erano sorte col tempo numerose leggende e ipotesi,
nessuna suffragata dal minimo riscontro reale, ma pur sempre suggestive. Tutti eravamo
concordi, per propensione naturale e istintiva, a identificare lautore con il
protagonista: potevamo dunque ben dire di conoscerlo a fondo, più di qualsiasi altra
persona, sin nei più angusti risvolti dellanimo. Ma i nodi rimanevano irrisolti; se
fossimo riusciti a dare una spiegazione a quel mistero, forse, avremmo trovato la via
giusta per finire il romanzo, e uscire da quel mondo verde di silenzi e abnormi piante
acquatiche.
Con il tempo, alcuni dei passi più sentenziosi del libro (soprattutto dei capitoli
iniziali, che costituivano il percorso comune a tutti) erano entrati a far parte dei
nostri detti e modi di dire. Li usavamo in diverse occasioni, a guisa di oracolo, perché
ci aiutassero a far luce nel buio; ma chi era già avanti nel percorso sorrideva bonario a
queste manifestazioni di speranza, che troppe volte aveva sentito e letto, sia pure in
forme diverse e distorte, negli intricati pensieri del protagonista.
Ci sarebbe stato concesso di arrivare alla fine? Perché lautore delle nostre
disgrazie continuava a tormentarci ancora?
Un giorno, roso dalla calura estiva e dai moscerini, mi arrovellavo di fronte a un che,
chiedendomi se introducesse la relativa appesa al rampicante al mio fianco, o la causale
che giaceva semisepolta tra le felci, poco più in là; improvvisamente, la ragione
risolse proprio in quel momento una questione che coltivavo da mesi, così come chi, dopo
aver a lungo e vanamente pensato a un problema, ne trova la soluzione immergendosi in
altre faccende.
Saltai in piedi, più morto che vivo, e come in risposta ai miei desideri udii la
sferragliante carrozza che portava il suo Caronte nel nostro angolo di foresta. Arrivai
alla radura trafelato, di corsa, e già risaliva lautore nella fantastica vettura,
quando incontrò il mio sguardo. In risposta alla muta domanda nei miei occhi, scese, fece
cenno al suo rumoroso seguito di attenderlo e mi prese da parte.
«Quando è successo?» chiesi, con occhi febbrili.
«Mi piacerebbe risponderti: quando avevo quasi finito, ma poiché ho dimenticato la fine,
non posso più dire quanto distante fosse. Quando iniziai, forse, il progetto era chiaro
nella mia mente; ora non lo so più. Dovete aiutarmi a ritrovare il filo perduto. Mi
dispiace coinvolgervi, ma io sono prigioniero insieme con voi, cercate di capire.»
Pronunciò quelle ultime parole con un tono inaspettatamente dolce, e per la prima volta
scorsi dietro quegli occhi di fuoco lautore vero, quello che aveva iniziato un
romanzo di belle speranze, tanti anni prima.
«Cè speranza, dunque?»
«Speranza è il termine sbagliato: cè volontà? - devi chiedermi. Iniziasti questo
libro, come tutti gli altri nella tua vita, senza aspettative - ma alla ricerca di una
risposta. Ti meravigli dunque di non averla trovata? Il mio protagonista fa altrettanto,
lo ammetto; egli è in effetti il più sincero personaggio della letteratura fin qui mai
creato, perché non fa mistero delle sue ambizioni pazze. Leggilo come un trattato
sullambizione, figliolo, e mi aiuterai a ritrovare il segno; non
quellambizione di cui si dice siano carichi i potenti, ma quella ancora più feroce
e diffusa di noi poveri pazzi, che cerchiamo nei libri uno scampo dallincubo e una
risposta.
E non lamentarti tanto della tua condizione; ché quelli là fuori, pure, sono
intrappolati, e forse peggio di noi.»