Poisoned mind

Racconto per il concorso "Premio Scheletri", 2010 - edizione 2

Ricevo la diagnosi come un pugno nello stomaco. Occhi strabuzzati dall’orrore e dalla sorpresa, dolore improvviso nel profondo delle viscere. Tre sole parole, sufficienti a destabilizzarmi in questo modo.
<<Sindrome di Renfield.>>
Sì, avete capito bene. Quella simpatica malattia che dona a chi ne è affetto il bisogno compulsivo di bere sangue umano. Facile: cominci tagliuzzandoti braccia e gambe, poi cerchi il sangue nei mattatoi, infine lo vuoi dalle altre persone.
Me lo spiega lui, il mio psicanalista, dal quale vado da un paio di mesi. Perché? Sono autolesionista. Da poco, ma è sufficiente per finire da un tipo del genere.
E qui tutto bene. La cosa terribile è che c’è dell’altro. Era cominciato tutto per gioco: ricordavo perfettamente quella serata. Lorenzo, il mio ragazzo, aveva tirato fuori una siringa. L’avevo ammirata nella sua terribile lucentezza e asetticità. L’aveva infilata nella vena, e mi aveva annaffiato direttamente la gola con il liquido che ne aveva tirato fuori.
In questo esatto momento, scopro che è una malattia mentale.
Fantastico, ho bruciato anche le tappe. Sono passata dalla prima all’ultima senza saperlo.
Il perché io lo faccia è semplice: mi eccita. Toccare i lembi di una ferita, sfiorare le gocce rosse, insinuare la lingua sotto la pelle.

Sono appena tornata a casa, e mantengo la facciata normale per mia mamma. Salgo in camera, scaravento lo zaino sul pavimento, poi mi siedo sul letto. Tiro fuori un serramanico di otto centimetri.
Come ogni volta.
Premo la lama affilata sul polso. La faccio scorrere. Attendo pochi istanti perché dalla ferita faccia capolino la prima goccia.
Oggi sono animata da un misto di rabbia, delusione, paura. Il mix più terribile, quello che mi fa piantare il coltello più a fondo.
Comincio inspiegabilmente a darci dentro di punta.
Un dolore che non sembra provenire dalla parte lesa si fa strada nel mio cervello. Due colpi, quattro, sette. Mi sembra di essere anestetizzata, mentre mi sto staccando la mano a coltellate.
Mi fermo. Il sangue cola sulle coperte, sui miei vestiti, è schizzato dappertutto nella mia camera.
Guardo il polso bucherellato dai colpi, e non mi basta. Pianto ancora la lama, questa volta prima di toglierla la faccio scorrere dentro la carne seguendo i tendini. Questi ultimi si intravedono, e così anche le ossa.
Ci appoggio sopra le labbra, e subito il sapore metallico mi riempie piacevolmente la bocca.
Muovo la lingua come se stessi baciando un ragazzo, ma è meglio, è più piacevole. La insinuo tra i tendini, mordicchio le bianche ossa all’interno del braccio.
Mi rendo conto in questo momento che ho appena passato il punto di non ritorno. Non sono io questa, penso.
Non sento dolore, come se l’avambraccio non fosse il mio. Un brivido orgasmico mi passa per la schiena e va a scaricarsi nella zona lombare.
In questo momento comprendo.
Mi tocco i denti.
I canini sono allungati.
Non è Sindrome di Renfield. No.
Lo psicologo mi sentirà: ha sbagliato completamente la diagnosi!

Beatrice Traversin