«Non posso dargli meno di una settimana, Anna, lo sai bene.»
«È stata solo una zuffa, Antonio!» replicò la maestra.
Il preside guardò oltre la porta del suo ufficio. Il piccolo Marco sedeva sul divanetto,
imbronciato. Sulla guancia aveva ancora uno sbaffo di sangue.
«Gli ha staccato la carne con un morso, per la miseria, gli ha aperto una voragine nel
braccio. Cristo, sanguinava come un maiale, ancora fatico a credere che la bocca di un
bambino abbia potuto combinare tutto quel casino. Anche se Marco è stato provocato, i
genitori di Davide non vorranno sentire ragioni. Una settimana è quel che posso
concedere.»
La maestra allargò le braccia, rassegnata.
«Coraggio, andiamo a parlargli, ora.»
«Allora, si può sapere che ti è venuto in mente?» chiese la
maestra.
«Ha iniziato lui» disse Marco, a capo chino.
«E questo ti ha autorizzato a morderlo? Hai visto cosa gli hai fatto?» rincarò il
preside.
Il bimbo annuì, incrociando le dita delle mani.
«Dovrai stare a casa per una settimana, adesso, in punizione» disse Anna.
«Ma ha iniziato lui!» sbottò Marco, piagnucolando.
Anna notò i canini. Lunghi. Troppo, per essere quelli di un bambino normale.
Istintivamente, con la coda dell'occhio guardò lo specchio sulla parete: c'erano il suo
riflesso e quello di Antonio, ma non quello di Marco.
Anna trasalì.
In quel momento uno squillò risuonò nell'ufficio.
«Scusami un attimo, vado a rispondere» disse il preside.
Il piccolo, intanto continuava a lagnarsi.
«Cosa ti avevo detto di non fare mai, quando sei a scuola?» chiese Anna sottovoce con
sguardo truce, ringraziando mentalmente il telefono.
Marco si portò subito le mani alla bocca.
«Non lo farò più. Scusa, mamma.»