Dalla cupola di osservazione, mentre guardavo le stelle, lentamente un oggetto simile a un cristallo di neve si avvicinava verso il finestrino. Grande quanto un’arancia, si fermò a pochi centimetri dal vetro temprato della stazione orbitante.
All’inizio pensai ad un’allucinazione, causata forse dal sonno o dal troppo lavoro. Ma quella cosa venuta dal nulla era ancora là fuori, fissa e immobile, come se aspettasse, come se guardasse.
Diedi l’allarme: un’oggetto non identificato minava la sicurezza di tutti. E tutti stettero a guardare, perché in fondo sembrava solo un grosso e innocuo cristallo di neve; a più di trecento chilometri dalla terra.
«Comandante, avvisiamo la base?» chiesi.
Il capo della spedizione fissava l’oggetto a bocca aperta, disorientato. Guardava quella cosa mantenere la stessa velocità orbitale della stazione, immobile, a soli due centimetri da ciò che ci separava dall’abisso siderale.
«No, non serve. Ci penso io. Vado a prenderla.» rispose.
Il comandante avrebbe dovuto avvisare la base. Quella cosa non era un oggetto qualsiasi. Quella cosa viaggiava nello spazio. Quella cosa viaggiava con noi.
Dentro la stazione, io e gli altri uomini della spedizione seguivamo le mosse del comandante. Con sé aveva una capsula contenitiva ad alto potenziale, capace di resistere all’esplosione di una bomba a mano. Ma soprattutto, capace di prevenire le possibili interferenze con le nostre apparecchiature, noi compresi. O almeno così credevamo.
«E’ bellissimo.» disse l’ingegnere pilota. E in effetti lo era. All’interno delle nostre fragili pareti pressurizzate, potemmo analizzare tutte le singolarità della struttura aliena. Sembrava diamante, puro e irresistibile. Il suo mistero inoltre ne impreziosiva a dismisura il valore, da noi inspiegabilmente taciuto al mondo: forse per paura di perderlo, forse per paura di condividerlo.
Per giorni l’oggetto ci distolse completamente dai nostri esperimenti scientifici e dalle nostre necessità fisiologiche. Ricordo che dalla base trasmettevano continui ed allarmanti ordini: preoccupati per i nostri prolungati silenzi radio, realizzarono che lassù qualcosa non andava.
E dopo la minaccia di un rientro forzato da parte della base, il comandante distrusse il computer per il controllo remoto della stazione. Nessuno doveva disturbare quel nostro sonno apatico, frutto di un piacere sconfinato, regalatoci dall’immensità delle stelle.
Passarono diversi mesi. L’ingegnere pilota era da tempo morto di sete. Anche il resto dell’equipaggio morì di inedia. A bordo eravamo rimasti solo io e il comandante.
Con una mano stringevo tra le mie carni l’affilato cristallo di neve, mentre con l’altra scrivevo a matita queste memorie. Scrivere mi dava l’illusione di resistere a me stesso, con la scusa di prolungare ancora l’agognante piacere venuto dal nulla.
«Lasciane un po’ anche a me.» disse a fiato corto il capo della spedizione. A tratti potevo vederlo nel buio, rantolava nel suo dolore. Ormai era ridotto a uno scheletro. Voleva solo la sua dose di stelle, l’ultima prima di sparire per sempre.
Lo guardai ancora una volta. Sì, stava morendo, insieme a me, come tutti d’altronde.
La riserva d’aria stava per esaurirsi, non c’era più energia elettrica a illuminare i corridoi. Tra gli ultimi gemiti di quell’uomo e i cadaveri fluttuanti della stazione, infine, mi accorsi di essere definitivamente solo; con quella cosa conficcata nella mano e il desiderio che potesse continuare ad esserlo per sempre.
«E’ la fine.» pensai, mentre fuori dal finestrino guardavo per l’ultima volta l’azzurro cielo del mio pianeta. E una coltre infinita di cristalli di neve scendere lenta su tutta l’umanità.