La luna in città

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2008 - edizione 7

Il rumore del treno riempie le orecchie, nel vagone, sul treno dei pendolari verso la periferia.
Cappuccio calato, braccia conserte, le luci dei neon, che sfrecciano rapide, la folla che pigiata in un'unica massa di corpi, di odore, di sudore.
Nessuno fa caso a lui.
Secondo l’orologio fuori dovrebbe essere già buio.
Nessuno lo nota.
In città non si fa caso alla luna: che lattea e luminescente invade l’aere con la sua luce fredda e liquida.
Troppi neon, troppe lampadine, troppi fari.
Nessuna di queste persone alza il mento verso l’alto.
Lui siede in questo simbolo di evoluzione umana.

La civiltà viaggia stanca su questo vagone, persone come isole: distanziate tra loro da muri costruiti con occhiali da sole, lettori musicali, le menti affannate dal lavoro, dai calcoli del proprio bilancio.
Un sentore di selvaggio si espande da lui, sempre meno evoluto o civile.
La civiltà è talmente vincolante che nessuno riesce più a lamentarsi del nauseabondo odore causato da gente che non si lava, e che pure prende il treno.
Tutti troppo educati, tutti troppo moderni per gesti stupidi come guardare il cielo.
Come dare retta all’istinto.
Come avere paura.
Il treno frena, e l’ululato si mischia al fischio dei freni: è chiaro e preciso, ma neppure chi ci fa caso ammetterebbe d'averlo sentito.
Gli avventori del vagone restano lì col loro sguardo vacuo, si riconoscono tra loro ormai, anche se non fanno caso gli uni agli altri, compiono ogni giorno lo stesso tragitto.
Lui con loro. Da qualche tempo.
Nessuno conta il tempo come lui, la luna non è più l’unità di misura per nessuno.
Fermo, immobile, il corpo che si espande sotto il cappuccio calato.
La galleria finisce a la luna spinge la sua luce verso il treno.
Lui sorride, adesso lo vedranno tutti: sarà la fine.

Francesca Piantanida