Il rumore
del treno riempie le orecchie, nel vagone, sul treno dei pendolari verso la periferia.
Cappuccio calato, braccia conserte, le luci dei neon, che sfrecciano rapide, la folla che
pigiata in un'unica massa di corpi, di odore, di sudore.
Nessuno fa caso a lui.
Secondo lorologio fuori dovrebbe essere già buio.
Nessuno lo nota.
In città non si fa caso alla luna: che lattea e luminescente invade laere con la
sua luce fredda e liquida.
Troppi neon, troppe lampadine, troppi fari.
Nessuna di queste persone alza il mento verso lalto.
Lui siede in questo simbolo di evoluzione umana.
La civiltà viaggia stanca su questo vagone, persone come isole: distanziate tra loro da
muri costruiti con occhiali da sole, lettori musicali, le menti affannate dal lavoro, dai
calcoli del proprio bilancio.
Un sentore di selvaggio si espande da lui, sempre meno evoluto o civile.
La civiltà è talmente vincolante che nessuno riesce più a lamentarsi del nauseabondo
odore causato da gente che non si lava, e che pure prende il treno.
Tutti troppo educati, tutti troppo moderni per gesti stupidi come guardare il cielo.
Come dare retta allistinto.
Come avere paura.
Il treno frena, e lululato si mischia al fischio dei freni: è chiaro e preciso, ma
neppure chi ci fa caso ammetterebbe d'averlo sentito.
Gli avventori del vagone restano lì col loro sguardo vacuo, si riconoscono tra loro
ormai, anche se non fanno caso gli uni agli altri, compiono ogni giorno lo stesso
tragitto.
Lui con loro. Da qualche tempo.
Nessuno conta il tempo come lui, la luna non è più lunità di misura per nessuno.
Fermo, immobile, il corpo che si espande sotto il cappuccio calato.
La galleria finisce a la luna spinge la sua luce verso il treno.
Lui sorride, adesso lo vedranno tutti: sarà la fine.