- Voi fûr a bevi un cafè - bofonchiò Beppino verso sua moglie,
zoppicando sul bastone e chiudendosi la porta alle spalle.
Bruna non gli rispose. Era lora delle telenovele e da quando lartrosi
le rosicchiava le ginocchia passava tutti i pomeriggi sulla poltrona, immobile, non sempre
con la televisione accesa.
Avevano quasi settantanni, novecento euro di pensione e un figlio che da quando
aveva perso il lavoro divideva i giorni in birra e sigarette. Ingenuamente lavevano
chiamato Angelo.
Appena fuori cercò di sistemarsi il cappello sulla pelata, ma limpetuoso tremito
alle mani glielo impedì, riportandolo al pensiero che lo tormentava.
Li avrebbe uccisi entrambi quella sera; poi avrebbe trovato il coraggio per seguirli.
Attraversò piazza Matteotti. Era una ragnatela di voci. Le panche di legno tarlate
avevano ceduto il posto a sedie di plastica appiccicosa; lo spritz era passato
dal suo bicchiere a quello di giovanotti che parlavano di esami e fantacalcio. Udine si
faceva bella, sbattendogli in faccia la sua vecchiaia e la sua povertà.
Tutti passeggiavano con una borsa in mano, un telefono in tasca, un sorriso sulla faccia.
Lui, invece, non avrebbe mai visto nemmeno uno di quei grandi centri commerciali, con
quelle offerte convenienti, che coloravano lultima pagina del Messaggero.
Passò davanti alla vecchia osteria senza fermarsi. Non lo faceva da settimane, perché
non se lo poteva più permettere: un caffè costava più di un euro.
Un tempo aveva una casa, unauto, delle ragioni per guardare le vetrine. Poi aveva
rinunciato a tutto, anche al riscaldamento, e adesso bagnava il sapone e lo metteva a
seccare, perché durasse di più.
Eppure aveva sempre lavorato. Operaio edile, di quelli bravi, che tirano su un
muro in mezza giornata. Di quelli che il capocantiere chiamava per un consiglio. E non
aveva mai chiesto niente a nessuno, lui. Nemmeno quando a Bruna serviva la dentiera, o
Angelo aveva sfasciato lauto.
Ma quel giorno era appena il venti del mese e nel cassetto dei calzini erano rimasti solo
dieci euro. Li aveva presi prima di uscire, e aveva preso la sua decisione.
Si guardò ancora le mani. Il tremito pareva aumentare di giorno in giorno, anche se il
vigore delle braccia non laveva mai abbandonato.
Pensò alla confezione di sedativi che aveva lasciato nella credenza. Un campione omaggio
del suo medico, che non aveva mai aperto. Quella sera, per cena, cera il minestrone,
ed era sempre lui che portava i piatti in tavola. Bruna sincantava davanti ai quiz,
e Angelo rientrava solo per guardare Striscia la notizia. Li avrebbe strangolati
nel sonno.
Alle sette sincamminò verso casa. Usò gli ultimi dieci euro per comprare dei Gratta
e Vinci, con lo sguardo di chi si getta da un aereo con un ombrello aperto. Non
vinse.
Quando aprì la porta sentì linequivocabile odore della cena. I piatti fumanti
erano già in tavola.
- Ciao papà - disse Angelo, sbucando dalla porta della cucina.
- Ce sucedie? Ce mût mai tu âs fat di cene? - disse Beppino, stupito.
- Così... Ho pensato che posso dare una mano a casa, finché non trovo lavoro.
- Ah... grassie - borbottò sedendosi, con malcelato disappunto.
- Figurati! - continuò Angelo con una voce querula. - Devo darmi da fare! Non possiamo
certo andare avanti in tre con le vostre pensioni.
Beppino portò alla bocca il primo cucchiaio, mentre Angelo lo guardava di sottecchi.
Bruna, di schiena, continuava a fissare la tv. Il minestrone aveva un sapore strano, quasi
amaro.
Appoggiò il cucchiaio e si alzò, dicendo che andava a lavarsi le mani. Mentre il
rubinetto scorreva, guardò nella credenza: i sonniferi non cerano più.
Tornò nella sala da pranzo, Angelo teneva gli occhi bassi. Li sollevò solo quando lo
vide assaggiare il minestrone di sua madre. Sapeva che il sapore era diverso.
Si guardarono negli occhi, poi Beppino sostituì il suo piatto con quello di Bruna e si
sedette.
- Vieni mamma, che si fredda.
Bruna li raggiunse, e nel silenzio rotto dai cucchiai, cominciarono a mangiare.