La stanza fredda

1950
Si svegliava sempre con la paura che fosse tardi. Prima c’era il canto del gallo ad avvisarlo dell’arrivo del giorno, ma il gallo l’avevano mangiato a Natale. Sua madre gli aveva tirato il collo a malincuore - era l’ultimo rimasto del pollaio - ma era una donna rispettosa delle festività e voleva che i bambini avessero un pranzo degno della nascita di Gesù, anche perché il loro Natale non prevedeva l’arrivo di doni. Erano troppo poveri e, se era vero che un signore barbuto e corpulento e vestito di rosso consegnava doni gratis ai bimbi buoni, sicuramente aveva perso il loro indirizzo.
Martino indossò velocemente i vestiti logori, bevve una tazza di latte crudo e uscì. Aveva un bel pezzo di strada da fare per arrivare al lavoro.
Aveva undici anni ed era il più giovane lavoratore del salumificio. Era pesante, per un bambino gracile come lui, ma si sentiva felice, perché sua madre, da quando era rimasta sola, aveva sgobbato dalla mattina alla sera per dar da mangiare a quattro figli, e senza il suo aiuto avrebbe finito con l’ammalarsi.
Il salumificio era a un’ora di strada e Martino camminava veloce. Voleva essere puntuale, perché il padrone, il signor Ferruzzi, era molto severo.

Ripensava alla volta in cui sua madre era stata male e al mattino era arrivato al salumificio più tardi dell’orario stabilito. Il padrone lo aveva preso per un braccio e scaraventato contro la vasca dell’impasto, minacciandolo che, se fosse capitato ancora, l’avrebbe pagato a suon di calci.
L’odore della carne di maiale si faceva sentire a distanza e non era un buon odore. Ma Martino sapeva che, una volta al lavoro, il suo naso ci avrebbe fatto l’abitudine.
Conosceva la fame, quella vera. Non quella che si placa con uno spuntino. Nonostante l’odore forte della carne di maiale gli fosse entrato dal naso come un pugno dritto nello stomaco, non avrebbe fatto i complimenti per una bella bistecca, se solo qualcuno gliel’avesse messa davanti.

 

Camminava e sognava. Una grande tavola imbandita, come prima della guerra, quando il suo papà era ancora vivo e c’era da mangiare per tutti.
Sognava le tagliatelle all’uovo che la mamma riusciva a fare sottili sottili, la crostata con la marmellata di more e sua sorella che se ne impiastricciava le labbra come avesse avuto un rossetto, l’anatra ripiena, il maialino arrostito.
Ma più di tutto sognava il salame, quel suo gusto goloso, saporito. Una fettina l’appoggiava sul pane e una se la infilava in bocca tutta intera, quando la mamma non lo guardava.
Ogni volta che lavorava all’insacco dei salami, l’odore della carne tritata e impastata con le spezie era così forte da fargli rigirare lo stomaco. E allora cercava di immaginare profumi buoni, odori invitanti. Cercava di ricordare il gusto della soppressa, con quella punta piccante dell’aglio, o del salamino stagionato a cui tirava via i cerchietti di grasso. Muoveva la lingua quasi per assaporare meglio i gusti che immaginava. Ma sentiva che i ricordi cambiavano, si facevano più sottili, sempre meno definiti. Quello che gli sembrava di sentire nella bocca non era il gusto del salame, ma l’idea che ne rimaneva. Era passato troppo tempo dall’ultimo vero assaggio. Cosa non avrebbe dato per una fetta di salame! Anche una sola fetta!
Preso da quei pensieri, il tempo del cammino si fece più corto e Martino arrivò al salumificio in perfetto orario.
Non appena varcò la soglia, sentì una mano afferrarlo per il collo e trascinarlo con forza. Era la mano del padrone, la ricordava bene. Gli urlava che era un ladro e che l’avrebbe conciato una volta per tutte.

 

***

 

Martino riaprì un occhio e si ritrovò disteso al bordo della strada, al lato del salumificio. L’altro occhio non accennava ad aprirsi. Era pesto, gonfio, e il sangue gli aveva seccato le palpebre.
Altro sangue gli colava dal naso e dalla bocca spaccata. Ogni flebile respiro era un risucchio grumoso su e giù per la trachea.
Non li aveva rubati lui i salami. Lui non era un ladro.
Le costole, sbriciolate dai calci del padrone, gli si conficcavano nei polmoni, come tante punte di freccia.
Non li aveva rubati lui i salami.
Aveva provato a diglielo, con quel poco fiato che gli passava per il collo stretto dalla mano del padrone, mentre veniva trascinato nella stanza fredda. Martino sapeva che lì venivano lasciati i pezzi di carne dopo la salatura e ci si entrava solo quando lo diceva il padrone. Nessuno sarebbe arrivato a salvarlo, nessuno.
Non era stato lui a rubare i salami.
Ma il padrone non aveva nemmeno voluto ascoltarlo. Aveva colpito, colpito con i pugni, poi con i calci, come una belva inferocita. Così avrebbe imparato a rubare i salami, gli aveva detto mentre gli sbatteva la faccia contro il muro, rompendogli il naso.
Martino aveva provato a divincolarsi, agitando le braccia e scalciando, ma la mano del padrone gli stringeva il collo come un pitone intorno a un cucciolo di scimmia, e con l’altra mano lo schiaffeggiava e lo colpiva.
Lo aveva picchiato fino a quando non aveva perso i sensi.
Lui non era un ladro. Non era stato lui.
Solo che non aveva più forza in corpo per gridarlo.
Martino sentiva le voci degli omoni dal piazzale del salumificio. Dicevano che aveva avuto ciò che meritava. E sapeva che non sarebbe servito a nulla sprecare le poche forze che gli restavano per chiedere il loro aiuto.
Così, mentre sentiva che la vita gli stava scivolando via mista al sangue che inzuppava il terreno, chiuse l’occhio che aveva aperto.
Stava morendo da ladro, un ladro di salami, lui che del salame nemmeno ricordava più il sapore.

 

***

 

2008
- Questo grande edificio qui davanti è il salumificio Ferruzzi. È uno dei salumifici più antichi della nostra città. Adesso lo gestisce il papà di Niccolò, ma prima c’era il nonno e prima ancora il bisnonno. Pensate, bambini, che esiste da più di cento anni!
I bambini guardarono la maestra con gli occhi gonfi di stupore. Cento anni dovevano essere davvero tanti!
Erano piuttosto eccitati ma la maestra non fece fatica a richiamare la loro attenzione. Si presero per mano a due a due, si misero in fila e si incamminarono lungo il piazzale verso l’entrata.
Qualcuno storceva il naso per l’odore forte della carne, qualcuno cercava di posizionare il cellulare per scattare qualche foto alla facciata grigia del salumificio.
Niccolò se ne stava in disparte. Quel posto lo odiava, tanto quanto suo padre ne era innamorato. E suo padre lo aveva capito bene, perché tante volte aveva cercato di portarlo con sé, nei pomeriggi in cui aveva finito i compiti, e ogni volta il figlio aveva trovato il modo di non andare, arrivando perfino a piangere per scoraggiare il genitore.
Ma questa volta lo aveva fregato, proponendo alla sua maestra di portare la classe al completo in visita al salumificio.
Gherardo Ferruzzi, il padre di Niccolò, guidò la scolaresca all’interno dell’azienda. Molte cose erano cambiate rispetto a tanti anni prima, quando a fare i salumi era suo nonno. La tecnologia, spiegava ai bambini, aveva consentito di inventare nuove macchine, per lavorare più velocemente e con meno fatica.
Niccolò quella storia la conosceva a memoria. Era quella che suo padre gli raccontava al posto delle favole. Il “fine” era sempre lo stesso e per nulla lieto: un giorno a dirigere il salumificio sarebbe stato lui.
Al solo pensiero Niccolò ebbe un brivido. Nel salumificio non ci avrebbe messo piede, mai!
Aveva provato a dirlo a sua madre, ma lei gli aveva risposto che erano solo brutti sogni e che presto sarebbero scomparsi.
E invece continuavano, sempre più frequenti. Sognava una stanza buia, tanto fredda. C’erano pezzi di carne appesi a ganci. All’improvviso un gancio si girava e sul pezzo di carne spuntavano occhi e bocca. Era vivo e urlava e chiedeva aiuto! Poi cominciava e delinearsi la testa e spuntavano le braccia e le gambe e ancora urlava e chiedeva aiuto. Era un bambino tutto insanguinato. Niccolò si svegliava urlando e piangendo disperato.
Nel salumificio non ci avrebbe mai messo piede!
Si staccò dal gruppo e nessuno si accorse della sua assenza. La maestra, alla presenza del padre, aveva inconsciamente deposto le sue responsabilità. Gherardo Ferruzzi era preso da se stesso, nel ruolo di guida turistica alle meraviglie del suo salumificio.
Il bambino cominciò a gironzolare per il cortile. Lo zainetto in spalla, il suo fumetto preferito, il berrettino sportivo e tanta voglia di libertà.
Ricordò che nello zaino aveva la merenda.
C’era una strada al lato del cortile. Era costeggiata da una striscia di prato, l’ideale per sedersi a sgranocchiare qualcosa.
Si accomodò sul terreno, con le gambe incrociate. Sbirciò nello zaino e vide un bel pacchetto rotondo che emanava un profumo incredibilmente invitante. La mamma gli aveva preparato un panino con il salame, uno dei favolosi salami Ferruzzi.
Lo scartò avidamente, pronto per il suo picnic.
Nella mano destra stringeva il panino, con l’altra sfogliava il fumetto che teneva aperto sulle gambe incrociate.
Un brivido gelido lo fece tremare. Fu allora che percepì la presenza di qualcuno. Qualcuno che lo stava guardando.
Si voltò verso la porta del salumificio, preoccupato all’idea che la maestra, o peggio ancora suo padre, potessero richiamarlo a riunirsi al gruppo.
Ma dalla porta non si affacciò nessuno.
Quando si voltò di nuovo verso il fumetto, lo vide. Si trascinò all’indietro per lo spavento, lasciando cadere il panino e rovesciando lo zaino. Il respiro gli si strozzò nella gola. A un paio di metri da lui, sul ciglio della strada, c’era la cosa più spaventosa che avesse mai visto nei suoi nove anni di vita.
Era un ragazzino magrissimo. Aveva il viso massacrato, il labbro inferiore gli si ripiegava all’ingiù scoprendo denti marci. Un solco nero delimitava uno degli occhi, mentre l’altro era chiuso, tumefatto e putrescente. La pelle, dove non era ricoperta di sangue rappreso, era di un pallore spettrale.
Niccolò era impietrito. Quel ragazzino, seduto due metri più in là, lo guardava con quel suo unico occhio nero come la notte. Avrebbe voluto gridare, ma non riusciva a muovere nemmeno le labbra.
Sentì qualcosa di caldo bagnargli i pantaloni, mentre il suo corpo era scosso da brividi di paura.
In un istante il ragazzino si spostò, come scivolando velocemente su un millimetro d’aria.
Niccolò se lo ritrovò vicino, senza avere la forza di indietreggiare.
Lo vide arricciare il labbro superiore, scoprendo un’atra fila di denti marci.
Ringhiava, stava ringhiando come un cane. Niccolò, per la paura, riuscì solo a tapparsi gli occhi con le mani.
Pregava che non gli facesse del male, pregava che riaprendo gli occhi scomparisse. Pregava e tremava, con le mani strette sul viso.
Lo sentiva ancora ringhiare, molto da vicino.
Allora cercò di vincere il terrore lasciando che le dita si aprissero appena, creando una fessura attraverso cui vedere.
Il ragazzino era inginocchiato a terra, la testa china sul panino. Inspirava ritmicamente come a cercarne l’odore. Niccolò era terrorizzato. Quando il ragazzino girò la testa di scatto, guardandolo dritto negli occhi, lanciò un grido che gli morì in gola.
L’altro ringhiò. Poi fece per avvicinarsi. Niccolò indietreggiò ancora, senza respirare.
Allora il ragazzino afferrò fulmineo il panino e si allontanò, sempre scivolando sull’erba.
Niccolò rimase a guardare esterrefatto.
Il ragazzino era tornato a sedersi lì dove lo aveva scorto poco prima. Si avvicinava il panino a quello che restava del suo naso e, inspirando, chiudeva l’occhio per godere del profumo.
Poi lo vide avvicinarselo alla bocca e morderlo delicatamente con quei denti luridi.
Mentre masticava, un sorriso sembrava disegnarsi su quel volto rovinato.
Gustò il panino a lungo, a morsi piccoli, assaporandolo in profondità.
Niccolò rimase tutto il tempo fermo lì, a guardare quella scena bizzarra.
Si accorse che il ragazzino lentamente si stava dissolvendo. Quando lo vide ingoiare l’ultimo boccone del suo panino al salame, era ormai un velo leggerissimo permeato dalla luce del sole.
L’ultima cosa che Niccolò riuscì a vedere fu quell’occhio, nero come la notte, ammiccare compiaciuto.

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