Fontanellato,
anno del Signore 1523
La muta di cani latrava la sua rabbia bestiale. Sotto una pioggia battente, aveva stretto il cervo in un assalto micidiale. Il grande maschio muoveva la testa, sormontata dallalto palco di corna, ed indietreggiava, posando gli zoccoli tra i ciottoli della pietraia. Lacqua diluviale inzuppava il pelo grigio dei cani, ruscellava dai musi frementi, mescolandosi alla bava che colava dalle loro fauci spalancate. Quando il capo muta balzò sul dorso del cervo e lo azzannò, tutta la muta, eccitata dallodore del sangue, si lanciò sulla preda, dilaniandola...
Francesco si svegliò di soprassalto e scese dal letto. Tutto il
castello era avvolto nel silenzio della notte.
« Girolamo! » chiamò « Svegliati, và dal conte e digli che oggi comincerò a
dipingere. »
« Ora, in piena notte?! » domandò il suo garzone, alzandosi assonnato.
« Si! » disse Francesco, muovendosi per la stanza.
Rovistò tra le sue cose, trovò una sacca di pelle e la rovesciò sul tavolo. Raccolse
una collana di granati e la strinse nel pugno, anche quella sarebbe stata rappresentata
nel suo affresco. In testa gli si stava formando il disegno che lopera avrebbe
dovuto avere ed i segni che avrebbe contenuto: simboli arcani, conosciuti nei libri che
aveva cominciato a leggere, libri segreti, messi allindice dalla Santa Chiesa.
Nel cortile un piccolo gruppo di persone lo attendeva, con le lanterne accese: il conte
Galeazzo Sanvitale era in mezzo a loro. Si stringeva in un mantello di broccato e
pelliccia ed aveva calzato gli stivali da cavaliere. Solo allora Francesco si accorse di
essere a piedi nudi e di stare calpestando il sottile strato di neve che ammantava il
terreno.
« Mastro Francesco, cosa succede? » domandò il conte.
« Oggi comincio a dipingere. » rispose Francesco.
« Oggi?! Ma non abbiamo ancora stabilito il soggetto, scelto la sala... »
Francesco non lo ascoltava, stava osservando la pianta quadrata del cortile, le finestre,
al primo piano, dellappartamento comitale. La sua attenzione fu attratta da una
porticina dangolo, alla base di una delle quattro torri.
« Qui! » disse, dirigendosi da quella parte.
« Qui, nelle cucine?! » domandò il conte, visibilmente sorpreso.
Francesco non rispose, inoltrandosi in un dedalo di ambienti, tra focolari e pentoloni,
vasellame e provviste, fin quando raggiunse una piccola stanza, senza finestre, alla quale
si poteva accedere solamente attraverso uno stretto uscio.
« Qui! » tornò a ripetere.
« Ma non ci sono finestre! Dovrete dipingere alla luce delle lanterne. » provò ad
obiettare il conte.
« Disponete che un servo ne procuri di nuove ogni ora. Non entrerà nella stanza, le
lascerà, accese, sulluscio. Nessuno potrà entrare prima che laffresco sia
finito. » rispose Francesco.
« Così sarà. » concluse, rassegnato, il conte.
Francesco aveva incontrato il suo committente nella bottega degli zii,
a Parma.
« Mastro Francesco, la fama della vostra maestria è nota a molti. Desidero dipingiate
per me un affresco, celebrerà la memoria del primogenito della mia discendenza,
prematuramente strappato alla vita da una febbre maligna. » aveva esordito quello.
Francesco aveva osservato il volto nobile del conte cambiare, segnato da un dolore
profondo, mentre gli occhi si velavano di lacrime.
« Sarà un onore. » rispose, mentre il conte posava una borsa di scudi doro sulla
lettera di incarico, che aveva appena siglato.
Laffresco andava prendendo forma: Francesco aveva tracciato
quattordici lunette sui lati della stanza ed abbozzato figure di putti alati. Ai quattro
angoli ed in punti ben precisi della composizione, aveva inserito simboli misteriosi e
lunghe frasi latine che, per un osservatore profano non avrebbero avuto alcun significato,
ma che, in realtà, si riferivano a ben precise formule esoteriche, richiamando la
metamorfosi alchemica, la trasformazione e la rinascita della materia.
Era faticoso dipingere alla luce delle lanterne, con laria respirabile che andava
scemando, consumata dalle fiammelle tremolanti, così Francesco scendeva
dallimpalcatura, che lui stesso aveva montato, e passava nelle cucine. Un giorno
vide un servo, un uomo grosso e dallaspetto volgare, mentre si radeva con un
coltellaccio, guardandosi in uno specchio da barbiere. Rimase affascinato dalla bizzarria
delle forme prodotte dalla superficie convessa, che faceva crescere i lineamenti del viso,
avvicinandolo, e lo rimpiccioliva quando ci si allontanava. Ragionò, a lungo, di come una
curvatura, opportunamente indotta da particolari procedimenti esoterici, avrebbe potuto
avvicinare due mondi.
Durante una pausa, stava mangiando del formaggio quando percepì una presenza alle sue
spalle: era la contessa Paola Gonzaga.
« Mi auguro che la vostra opera possa portare a tutti un po di serenità, almeno
quella del ricordo. Dalla morte di nostro figlio una tristezza infinita, come un inverno
senza fine, è scesa su questa dimora. Galeazzo, mio marito, è cambiato, mi ama ancora,
ma si è come allontanato. Ci separa una distanza ben più grande del corridoio che divide
le nostre camere da letto... » gli parlò lei, con voce bassa.
Francesco fu colpito dal dolore composto della nobildonna, dalla pena che sembrava
offuscare la sua bellezza, dalla rassegnazione che la portava ad accettare la perdita del
figlio e anche quella dellamore e delle sue prerogative coniugali. Decise che la
contessa Paola sarebbe stata ritratta nellaffresco, ma non triste, bensì radiosa,
il bel volto incorniciato dai capelli lucenti, un abito sontuoso, profondamente scollato,
a mostrare la grazia del suo seno alabastrino.
Laffresco era finito, Francesco accompagnò i conti nella stanza.
Un braciere riverberava le sue fiamme su di uno specchio incassato nella volta,
illuminando le lunette alle pareti e le scene mitologiche in esse contenute. Ecco il
cacciatore Atteone, seguendo la sua muta di cani, sorprendere Diana intenta a bagnarsi
nellacqua di una fonte. Il corpo nudo della dea brillava nella luce, sebbene le sue
ninfe, nude anche loro, si disponessero intorno a lei per celarla alla vista del giovane
uomo. Come racconta Ovidio, la dea, adirata, lo puniva trasformandolo in cervo e facendolo
sbranare dai suoi stessi cani. Nella lunetta, la morte di Atteone era una scena di tragica
immobilità, mentre il sangue zampillava vermiglio. Sopra erano rappresentati due bambini
di cui uno, un neonato, il figlio della nobile coppia, portava una collana di granati e
stringeva in mano un ramo di ciliegie, simbolo della tragedia della sua morte prematura.
In una cornice di legno dorato, che circondava lo specchio nella volta, era incisa
uniscrizione latina.
« Respice finem, osserva la fine. » lesse il conte Galeazzo, con la voce rotta
dal pianto. Anche la contessa Paola singhiozzava sommessamente. Francesco li osservò per
un istante, poi li lasciò soli nella stanza e chiuse luscio alle sue spalle.
Appoggiò lorecchio al legno del battente e rimase in attesa.
« Respice finem, osserva il confine. » pensò.
La stanza annullava il confine tra due mondi, quello dei vivi e quello dei morti,
consentendo a tre cuori, che erano stati separati, di ritrovarsi. Ascoltò le voci della
coppia farsi sempre più eccitate, poi quella di un bambino che rideva, felice
dellamore dei suoi genitori. Staccò lorecchio dal legno delluscio e
lasciò quelle stanze.
Una nebbia fitta, quasi impenetrabile, saliva dal fossato e avvolgeva
le mura della rocca dei Sanvitale. Francesco si fermò sul ponte che univa il castello
alla piazza antistante e si guardò attorno. Era un giovane di aspetto grazioso e con un
bellissimo viso sottile. Sorrise per la consapevolezza che la sua arte lo avrebbe reso
immortale, nonostante la vita breve e travagliata che gli sarebbe toccata. Sorrise per la
consapevolezza che il dono, il potere, che sentiva crescere dentro, lo avrebbe reso uno
degli alchimisti più famosi del suo tempo. Si strinse nel tabarro e si allontanò,
scendendo verso il borgo.
Si chiamava Francesco Mazzola, detto il Parmigianino.