Ogni pomeriggio Alice era nella sua camera a guardare lo stesso pensiero fare ping pong sulle pareti bianche: “mi hanno lasciata sola”. Non che la mamma lo volesse, si intende, e nemmeno il papà, ma dopo il lavoro avevano tante faccende da sbrigare prima di rientrare a casa.
La mamma usciva dall’ufficio alle quattordici, poi doveva fare la spesa e andare a casa della nonna perché la sua campana degli ottantacinque era suonata e: “Alice non vorrai mica che la trascuri? Potrebbe accaderle qualsiasi cosa nelle condizioni in cui si trova”. La nonna non camminava da cinque anni e aveva cambiato più di tredici badanti perché tutte incapaci, ma alla mamma, quello era il sospetto di Alice, le faceva piacere, così poteva occuparsene lei senza sentirsi in colpa. E poi Alice era una bambina grande, la sua campanella degli undici anni era suonata, quindi doveva capire che la mamma poteva tornare da lei alle venti all’incirca, per preparare la cena, o magari poteva darsi che sarebbe rientrata prima solo perché il papà le avrebbe dato un passaggio con la macchina. Oh, la mamma era tanto contenta di quella cortesia, tutto girava sull’essere cortesi e il papà doveva esserlo per forza se voleva che non si lamentasse per la sua assenza. “Volevo solo che mi venissi a prendere perché avevo le buste pesanti della spesa”, gli diceva in cucina quando lui non voleva capire i suoi motivi, mentre andava in onda la replica del telefilm preferito di papà su una strega schiava del suo padrone che però alla fine lo aveva sposato e continuava a chiamarlo così, “sì, padrone, come vuoi, padrone”. E il papà allora urlava qualche brutta parola che Alice non poteva ripetere, ma poi acconsentiva e dalla prossima volta prometteva di non mancare ai suoi doveri. In fondo la mamma chiedeva poco, oltre questo solo che rispondesse sempre al telefono e che giustificasse il modo in cui trascorreva tutti pomeriggi. Lui faceva il banchiere e Alice sapeva che finiva di lavorare alle diciassette, ma rientrava a casa poco più tardi della mamma dicendo, quando la mamma lo telefonava, che si era fermato col suo amico Franco nel quartiere, a passeggiare sul marciapiede che affacciava sul mare. Altre volte invece si portava dietro pezzi d’elettronica, che usava come diversivi, poiché amava trastullare con le casse audio nel salotto, oppure diceva, quando doveva provvedere lui alla cena, che il pane lo avevano finito tutti e perciò aveva dovuto girare di supermercato in supermercato per trovarlo.
E così Alice, verso le venti, sentiva lo stridio delle chiavi che giravano nella toppa e poi la madre o il padre attraversare il corridoio. Li vedeva dal vetro colorato della sua porta di legno, come un’immagine sfocata che sembrava essere proiezione della sua mente e diventava realtà solo una volta che si erano messi all’opera in cucina, la mamma cominciando a fare domande a raffica e il papà giustificandosi. La loro presenza ingombrante rompeva quella lastra di silenzio. Alice a quella tiritera sospirava di sollievo e i pensieri brutti le rientravano dentro la testa, facendosi ingoiare come grossi bocconi di carne, fino al giorno successivo. Poi ricominciava tutto. Com’era strano quel meccanismo. Alice non ci capiva molto, ma qualcosina la intuiva, sapeva che mamma e papà non andavano d’accordo e per questo forse non si accorgevano di lei.
Quando Alice rimaneva da sola, la mamma voleva che facesse i compiti e la chiamava per accertarsi che avesse concluso: “li hai finiti?” “Quasi”, rispondeva Alice, ma in realtà non studiava il pomeriggio. Si era procurata una torcia vecchia dal giardino e leggeva e scriveva da sotto le coperte durante la notte, perché prima proprio non poteva.
Anche quel pomeriggio andò così, cercò di rompere da sola il silenzio, con la casa vuota, senza mamma e papà. Forza Alice!, le ripeteva un sussurro buono nella mente che non aveva il tono di nessuno che conosceva. Nella stanza c’era un armadio giallo e una scrivania sotto la finestra, poi il letto e un trappeto rosa, il preferito della mamma, perché lei era ancora troppo piccola per decidere quale colore fosse il più adatto. La sua voce era meno forte della sua e quindi non aveva credito.
Ricordò allora quella volta in cui aveva chiesto alla mamma: “Mamma, ma non puoi saltare solo un pomeriggio dalla nonna? Potresti aiutarmi con i compiti difficili”.
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“Alice! Che schifezza! Oh, che il Signore Gesù ti perdoni per quello che la tua lingua acerba dice”
“Che significa acerba?”
“Vuoi che la nonna si senta male o che muoia, così poi ce l’hai sulla coscienza?”
Alice si sentiva colpevole ogni volta che ci ripensava e aveva la conferma che doveva essere una bambina cattiva per non accettare quel discorso. Aveva troppo tempo per fantasticare e non capire le cose serie, come le aveva detto una volta suo padre:“Papà, oggi pomeriggio potremmo guardarci un film insieme o una puntata di un cartone animato alla Tv”.
“Alice, mi piacerebbe tanto, ma lo sai che il papà lavora”.
“Anche dopo le diciassette?”
Dal telefono era volato un risolino, poi la sua voce si era alterata come quando parlava con la mamma.
“Cosa credi che abbia tempo per fantasticare nel mio mondo incantato come fate voi bambini? I papà non possono perdere tempo, se vogliono che la loro famiglia non caschi come un frutto marcio dall’albero. Sacrifici che faccio soprattutto per te, mia cara. E lo capirai diventando grande”.
Alice non capiva perché era cattiva, perché non se ne importava che la nonna poteva morire, voleva solo che uno di loro fosse lì con lei, anche se questo voleva dire: disgrazie. Ormai ne era convinta che lo desiderasse più di ogni altra cosa. Voleva guardare la tivù con il papà e fare tutti i compiti con la mamma, anche se non le piaceva studiare, non voleva sentire quell’orrore allargarsi dentro la sua stanza, giocare sulle pareti come l’ombra di un cagnolino che poi diventava grande, un cavallo galoppante intorno alla sua angoscia che la riempiva di pianto.
Alice pianse senza poter smettere. Pensava alla porta all’ingresso che si apriva, alla toppa magica e scricchiolante, alla cena della mamma e al telefilm della strega che odiava così tanto perché era vecchio e non faceva ridere, nonostante gli attori tentassero battute, avrebbe tanto voluto prendere il telecomando e guardare qualcosa di suo. Ma la tivù non era sua, nemmeno la camera, il letto e l’armadio giallo e il tappeto rosa confetto, quella era la casa di mamma e papà che le avevano prestato, come si presta un giocattolo per poi riprenderselo, per farci i compiti e non protestare. Solo ubbidendo forse sarebbe cambiato qualcosa, forse sì, un giorno, se fosse diventata brava, qualcosa le sarebbe appartenuto. Ma quel tempo quanto era lontano? Ormai il cavallo galoppava più forte e Alice non sapeva come trattenerlo fino a sera. La voce invisibile taceva. Le briglie del cavallo si erano cancellate e l’animale era diventato una grande ombra profonda. Lo guardò nitrire impennandosi sul soffitto, ora sembrava quasi un drago. Allora si nascose sotto al letto e vi rimase. Il telefono cominciò a squillare per via della mamma che ancora non sapeva che per la prima volta non l’avrebbe risposta.
Ho cominciato a scrivere horror da quando un giorno il mio professore lesse in classe "Il barile di Amontillado" di Poe. Non dimenticherò mai quel momento, quando mai come nessun altro un racconto mi tenne incatenata alle sue parole, fino alla fine senza darmi tregua, con gli occhi spalancati e una meraviglia strana nel petto che mi morsicava dentro. Ho continuato a leggere Poe, Lovecfrat che è un altro dei miei preferiti, e poi King (lo zio!) che è la mia ossessione, e così poi mi sono messa alla prova e ho scritto vari racconti, tra cui alcuni pubblicati (uno ad esempio uscirà a ottobre con la Re Artù edizioni).
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