Il segreto per sopravvivere

2° classificato al concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2007 - edizione 6

Albeggiava.
Luca si strinse nella coperta, sfiorando istintivamente il calcio della Glock nascosta sotto il braccio sinistro. Quella casa era sicura?
Lontano dalle città impazzite, sfuggendo all'inferno, aveva cercato rifugio in campagna, vagabondando fin lì, in quel paesino della Valsesia. Il posto era deserto, abbandonato. Forse erano fuggiti tutti. Dove? Non lo sapeva. In fondo voleva solo riposare.
Però i ricordi lo tormentavano.
Il passaggio della cometa, l'umanità col naso in su ad ammirarla. Nessuno immaginava ciò che la sua coda trasportava: molecole organiche, parassiti invisibili in grado di attaccare i sistemi nervosi umani meno sviluppati.
Alzatosi, sorseggiò dell'acqua, osservando i raggi solari che si riflettevano sulla TV rovesciata a terra, testimone muta della fine dei tempi. Ricordava gli ultimi notiziari, venti giorni prima: polizia e soldati che cercavano di arginare il caos, a loro volta aggrediti da chi non accettava le drammatiche risoluzioni decise dal Governo.
Chiese, ospedali, scuole messi al rogo.
Follia.

Improvvisamente, dei rumori da fuori. Fruscii, risate ingannatrici.
Strinse la Glock, tolse la sicura. La canna era ancora sporca del sangue rappreso di Giorgio. Gli aveva sparato mentre era chino sul petto squarciato di Marzia.
Dai bunker governativi, qualcuno via radio parlava di “strategia d'invasione”. I creatori della molecola assassina osservavano soddisfatti la fine dell’umanità, dallo spazio?
A Luca non importava più.
Si affacciò. Erano cinque. Ridevano. Lo facevano sempre, prima di attaccare furiosamente. Era una strategia per confondere, rassicurare.
Sparò a ripetizione, senza pensarci. Era quello il segreto per sopravvivere: nessuna pietà, nessuna morale, solo fredda determinazione. L'ultimo cadde correndo verso di lui, centrato alla gola. Quei piccoli bastardi a volte s'imbottivano di esplosivi artigianali, meglio andare sul sicuro.
Per un attimo ripensò a Giorgio. Anche lui aveva riso innocentemente, lordo fino ai gomiti del sangue di sua madre.
Era suo figlio, aveva sette anni.

Alessandro Girola