Sotto le
luci della festa vociava, scorreva, si agitava la folla. Lui si fermò ai margini della
piazza, unombra silenziosa nelloceano dellumana indifferenza. Si guardò
attorno, un attimo. Tirò fuori il violino dalla custodia, lo liberò in fretta dal suo
sudario di tela, con le lunghe mani artritiche di vecchio mendicante. La gente attorno non
sentiva, non vedeva. Tutto normale, come sempre.
Ma questa volta no, si disse. Diede la pece. Questa volta dovranno prestarmi orecchio.
Perché è grande musica, quella che suonerò stasera. Musica da resuscitare i morti.
Accordò lo strumento. Qualcuno lo urtò, nessuno gli avrebbe chiesto scusa per questa o
per tutte le altre volte. Non importava, adesso.
Scivolò lento larchetto sulle quattro corde. Un miagolio flebile, lungo. Sei una
promessa, gli aveva detto un giorno il suo maestro. Hai talento, certo diventerai...
Nulla. Bastarda sorte, te ne freghi del talento. Ma è il mio momento, questo. È la mia
più grande esecuzione.
Strideva larchetto, rapido, feroce. Qualcuno gridò, da qualche parte della piazza.
Essi risalivano, affioranti dalla terra che si spaccava sotto i piedi della folla urlante.
Venivano fuori da ogni parte, confluivano ciondolando verso la piazza, guidati dalla
musica.
Lui adesso sentiva rumore di mascelle potenti, odore pungente di carne fresca di macello.
Il terrore disperato degli uomini. Nessun dio ad ascoltarne lagonia.
Larchetto impazziva. Loro mangiavano, mangiavano a tempo.
Poi la voce del violino si fece fioca, si spense lentamente in un bisbiglio sottile. Essi
gli erano attorno, in attesa. Ai piedi, un cimitero di ossa rosicchiate e brandelli di
carne umana.
Lui guardò in fondo a quelle fauci putride e sanguinolente, nelloscuro delle loro
orbite cave, lesse lo stesso suo essere nulla. Sorrise infine, con dolore, sinchinò
a salutare il suo pubblico.
Taceva il violino, pago di sangue e musica.