utte quelle sirene.
Avrei dovuto capirlo.
Ascoltavo in auto So what di Miles Davis, due settimane
fa, quando vidi sfrecciare la sesta ambulanza in due giorni. Accostai per
cedere l’asfalto ai soccorsi e il suono si disperse nell’incrocio poco
oltre. Scacciai il pensiero della morte e tornai al jazz.
Consumai quella giornata tra le scartoffie in ufficio, spegnendo, ultimo, le
luci. Scesi le scale e la sentii, la settima. Sbirciai dai vetri: ferma,
giù, a un paio d’isolati, con le luci accese. Tirai la lampo della giacca e
proseguii.
Il giorno dopo ancora quel suono, a pranzo, e la sera incrociai con lo
sguardo uno di quei veicoli tagliare veloce il traffico nella corsia
opposta. La mattina a seguire, all’alba, sirene spiegate infransero il mio
sonno, e alle luci del tramonto, un’ambulanza correva lontana lungo le
campagne che costeggiano la città.
Pensieri folli scavavano tunnel nella mia testa, così comprai un quotidiano
sgualcito da uno strillone indiano al semaforo per cercare una ragione o
darla vinta al caso. Nulla. Se qualcosa stava accadendo erano tutti dalla
stessa parte, dalla “loro”. Mi spaventai e ripiegai sul riposo e qualche
bicchierino in più, e per qualche tempo sembrò tornare tutto nella norma,
che fosse fuori o dentro di me. Finché ieri notte accadde.
Tornavo a piedi verso casa quando un’ambulanza, silenziosa, affiancò la via
del mio ritorno. Mi superò di un centinaio di metri e sostò davanti
all’ingresso del mio palazzo. Due infermieri aprirono i portelli e scesero,
decisi come soldati, forzando la serratura del portone e scomparendo oltre.
Salii sulla mia auto, parcheggiata qualche metro prima, e attesi.
Caricarono a bordo Steve, il portinaio, trascinato come un sacco, lo
adagiarono all’interno del veicolo su un lettino e gli coprirono il volto di
terra, poi l’ambulanza ripartì mentre i portelli si chiudevano negandomi il
resto. La seguii, ma fu una cattiva idea. Al primo semaforo si fermò e i due
uomini mi presero con la forza.
Il resto conta poco se nessuno mi crederà.
Gli ospedali, dentro, non sono ospedali e “loro” non sono
“dei nostri”. I pazienti non hanno nulla: vengono scelti, prelevati dalle
abitazioni e condotti qui per gli innesti, poi riportati a casa dopo
l’estrazione. La terra è concime di un seme che viene inserito alla base del
cranio. Credo c’entri con l’ipofisi e l’anima. La pianta cresce in fretta e
dà un frutto delle dimensioni di una ciliegia, che viene prelevato come
cibo, il loro. Pare che dopo non si provi più nulla.
Da questa mattina ne ho una anch’io sul collo. La sento viva, molle, pulsa
come una vena, reagisce se la tocco e mi fa male. Sta maturando e avverto
cambiamenti in me: non amo i miei ricordi, non piango e non mi emoziono più
con Miles Davis.
Prima di essere svuotato scrivo quanto mi è accaduto su questo nastro di
carta igienica, fisso un’apertura nel vetro e prego che il vento porti la
mia testimonianza oltre la recinzione dell’ospedale.
Per me non c’è più speranza.
Ma Dio, se esisti, soffia forte.